una lettera di rabbia

Non so quanto durerà ancora la mia permanenza alla direzione del giornale (molto dipende dalla libertà che fino a ora, magari litigando, i miei editori mi hanno concesso), non so se e quando pubblicherò ancora libri (molto dipende da Perdisa, dalla mia agente, da Luigi Bernardi).
E’ cosa questa che ho scritto in una lettera privata, pochi giorni fa.
Una lettera rabbiosa, anche. Incazzata.
E quando uno s’arrabbia finisce per vantarsi, anche; come ho fatto io.
A un certo punto, infatti, ho scritto: posso vantarmi d’essere sempre quello di trent’anni fa. Quando nella mia città vado nei posti dove quelli che sono conosciuti passano davanti a quelli che non sono conosciuti, bene, io resto tra questi.
Nulla di evangelico: beati gli ultimi una beata fava.
No: è che ho le allucinazioni, io, soprattutto se faccio la coda.

Mi è successo per la prima volta cinque anni fa. Allora.  Sono diventato direttore del giornale da poco.
Ho comprato due vestiti nuovi, anche abbastanza costosi, certo niente cravatta, e barba e capelli come sempre, sull’incolto, ché il pettine e le lamette mi danno sui nervi.
E vado a fare controllare la macchina (nuova, una chilometri zero presa a rate, però).
Attendo il mio turno, ho fretta, un meccanico mi ha appena detto che in un quarto d’ora mela caverò. E infatti è il mio turno, senonché.
Senonché, già.
Arriva un tipo, pure lui vestito nuovo, ma pure cravatta e auto di grossa cilindrata, che sorride al capo officina: basta un sorriso a volte; e il capo officina dice, fingendo che io non esista: Ma è lei dottore.
E il tipo mi passa davanti.
Cazzo, penso tra me e me, sono pure il dottore, e sono pure il direttore del giornale più importante, e scendo dall’auto, guardando di brutto il “dottore”, che continua a sorridere, e l’altro, che sorride come sorridono i servi.
L’allucinazione era in agguato.
Mi volto e mi vedo. Sono io a vent’anni, con una Fiat Cinquecento di terza mano, grigia. Ho la barba lunga, pantaloni e giubbotto di jeans. Un camicia di tinta unita, magari viola, magari blu, magari rosa, ché mi piacevano così.
(Che poi: se invece devo andare a lavorare in fabbrica ho i jeans e la blusa blu d’ordinanza, della fabbrica).
Mi ri-vedo, ri-vedo soprattutto i miei occhi: orgogliosi. Di chi non passerà mai davanti a nessuno.
Di chi andrà dal capo officina e dirà solo quel che c’è da dire: Non è giusto, toccava a me.

In questi cinque anni è successo spesso che qualcuno mi abbia detto, Poteva dirmelo, la facevo passare.
Mica sono stato lì a spiegare che quando sto in mezzo alla gente c’è sempre un ragazzo – fa l’operaio, sogna un mondo migliore – che severo mi osserva.
E se qualche rara volta magari l’ho tradito a quel ragazzo è stato per un attimo: e gli ho chiesto scusa, poi.

Questo ho scritto nella lettera.

8 pensieri su “una lettera di rabbia

  1. Be’, complimenti! La tentazione sarà stata forte… Puoi dire con orgoglio di essere ancora quello di vent’anni fa!!!

  2. E hai fatto pure bene, se non l’hai tradito. Io andrei anche oltre: protestare se qualcuno passa avanti.

  3. Bello rimanere coerenti a se stessi nelle cose essenziali e magari mutare idea in ciò che è transitorio… la giustizia è un valore eterno. E sì, Remo, è evangelico ricordarsi degli ultimi e pensare a quando gli ultimi eravamo noi.

  4. E’ soprattutto nell’ambiente sanitario che conta essere conosciuti, conta avere padrini, un vescovo, un parlamentare, il maresciallo del paese, magari per avere un esame veloce.
    se un parlamentare – di centro destra o centro sinistra – vuol farsi fare un controllino, che dite, aspetta?
    ed è uno schifo: perché fanno aspettare chi non dovrebbe.

  5. Solitamente il “Lei non sa chi sono io” lo usano solo le “mezze calzette”.Meno male che tu non sei così e spero rimarrai sempre come sei ora.Gli altri saranno anche “dottori”, come del resto lo sei anche tu, solo che tu non hai nessun bisogno di ribadirlo al mondo e del resto, i veri signori, non lo fanno mai.Forse è proprio perchè sei così che siamo amici:io “quelli che se la tirano”, non li ho mai potuti sopportare.E’ una fortuna che tu, negli anni non sia cambiato, ti ammiro proprio per questo e adesso, non dire che sto tessendo le tue lodi, perchè non è vero.
    Ho pochissimi amici, e tu, sei tra questi.Di te ammiro sopratutto la coerenza ed il coraggio che hai nel difendere le tue opinioni, anche a costo di pagarne le conseguenze oltre alla tua modestia, a volte, credo un po’ eccessiva.Certo oggi il mondo è in maggior parte in mano ai furbi e agli arroganti, che sono la maggioranza.Io comunque mi sono sempre sentita , come te, dalla parte di quelli che “furbi a tutti i costi” ed arroganti non lo sanno proprio essere.

  6. Allora sono superba anch’io.
    Anzi, se proprio non ho una fretta del diavolo lascio anche passare chi sia dopo di me se vedo che ha urgenza.
    Però ci sono tanti che poi si approfittano della bontà altrui e non sempre sono “dottori”…

  7. Faro’ atto di superbia, Remo, e diro’ che siamo rimasti in pochi. Troppo pochi a possedere ancora il senso non della giustizia, ma dell’ingiustizia. Mi fa star male vedere il furbo di turno, quello che passa avanti a tutti perche’ e’ il “dottore” (a Roma poi, son tutti dottori in qualcosa). E proprio perche’ mi fa stare male sono incapace di chiedere favori, soprattutto se riguardano me direttamente. Avrei diritto a sconti, a biglietti gratis, a inviti. Mai accettati. Se mai ci sara’ una rinascita per questo povero paese, potra’ partire solo da noi.

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