La prima voce

Questo è il secondo capitolo del mio primo romanzo, Il quaderno delle voci rubate. Potrebbe anche essere il primo capitolo, perché i due, primo e secondo, hanno (per me) pari dignità. Ed è anche, Il quaderno delle voci rubate, il mio libro meno conosciuto: fu distribuito nelle librerie di Vercelli, poi io, con gli anni, ne ho regalate una cinquantina di copie.
Eccolo dunque

 

Rende bene questo vecchio bar. Per tanti anni mi sono fatto un culo tanto: barista, cameriere, cuoco e naturalmente cassiere. Sempre solo. Tanto, troppo lavoro al mattino per le prime colazioni degli operai che vanno a lavorare in autobus per le otto, e che hanno fretta di caffè, cappuccini, mentre leggono la Gazzetta dello Sport; peggio ancora tra l’una e mezza e le due e un quarto: sono quarantacinque minuti di sudore per via degli impiegati della banca che c’è qui, all’angolo tra la via principale e la piazza: mentre trangugiano panini e insalate miste arrivano i primi pensionati, che al bancone consumano caffè aspettando che si liberino i tavoli, e che io li pulisca per bene, cosicché possono giocare a scopone per tutto il pomeriggio. Tra le due e le due e un quarto vivo quindici minuti d’inferno: gli impiegati vogliono, e in fretta, il conto e il caffè, così possono sgranchirsi le gambe prima di rientrare in banca. E i pensionati, per lo più ex operai ed ex muratori, per lo più fedelissimi di Rifondazione comunista che non hanno simpatie per quei bancari vestiti e pettinati bene e che masticano con la bocca chiusa, pretendono anche loro un trattamento veloce: vivono di ricordi, di partite a carte, di chiacchiere e (tanta) noia, ma non hanno tempo di aspettare, e appena entrati mi indicano la macchina del caffè, non si sprecano nemmeno ad aprire la bocca, ma forse è colpa mia che li ho abituati così. Li so tutti a memoria i loro caffè: corretti Fernet, grappa Libarna o Piave o della Serra di Chiaverano, corretti Vecchia Romagna, oppure lunghi per chi ha avuto problemi di cuore.
Tra loro e gli impiegati ce ne saranno in tutto dieci che chiedono semplicemente un caffè. Naturalmente gli impiegati sono peggio: ad esempio il più vecchio, un torinese, credo sia il vicedirettore, un giorno è capace di ordinare caffè con latte freddo a parte, e il giorno dopo caffè corretto Fundador.
In quel quarto d’ora faccio da trenta ai settanta caffè, non c’è male per la cassa.
Ma preferisco la sera: meno guadagni ma perlomeno respiro, perché allora c’è il giro di gente che piace a me.
Di giorno, anche se il lavoro è tanto, io comunque ascolto. Ascolto sempre. Quando mi avvicino ai tavoli per servire, le persone continuano a parlare senza badare a me. Raramente s’interrompono. Pare quasi che la gente sia convinta che io sia sordo o che a me delle sue storie, delle sue confidenze, anche intime, non importi nulla. La mia riservatezza è un fatto scontato: del resto il paese è piccolo, la gente sa che bado ai fatti miei.
Non è così. Per un certo periodo della mia vita, quando restavo da solo, su un quaderno avevo preso l’abitudine di collezionare le “voci” che più mi colpivano.
Ho iniziato per gioco. In quel quaderno vuoto, con la copertina nera e lucida, a quadretti – dimenticato una mattina da una studentessa impaurita perché, sola e rintanata goffamente nel bar, aveva fatto taglia da scuola – inizialmente, avevo cominciato a scrivere le barzellette più divertenti che ascoltavo: le riscrivevo per non dimenticarle e, all’occorrenza, raccontarle. Ma questo non è mai avvenuto. Passai ad altro.
Volevo vedere se esistono risposte furbe alla domanda che quasi tutti fanno quando si vedono, anche a distanza di poche ore: «Come va?».
Così, nella terza pagina del mio quaderno, in alto e in maiuscolo, ho scritto il titolo: «Come va?».
Sotto, dovevano starci le risposte furbe. Quelle diverse. Fu un tentativo inutile. Feci solo un’indigestione di «Bene grazie», «Potrebbe andare meglio», «Facciamola andare», «Così così», «Va!», di «Non c’è male», «Insomma», di (tantissimi) «Finché c’è la salute», di (qualche) «Come vuoi che vada? Di merda no?». Era destino che in quella pagina, sotto quel titolo, dovesse restare solo dello spazio bianco. Del resto anch’io una risposta furba non l’ho ancora trovata. Faccio parte della categoria di chi dice «Insomma». Insomma, dico una balla.

Mentì anche quell’uomo, con un solito «Bene grazie», che mi diede lo spunto per scrivere altro. La sua fu la prima voce.
Arrivò solo. Avrà avuto fra i quarantacinque, e i cinquant’anni, non di più. Era elegante, eppure avevo la sensazione che in lui ci fosse qualcosa di strano.
Comunque aveva una faccia simpatica, da persona importante; importante ma cordiale. Oramai ci ho fatto il callo, io: i gasati li annuso subito. Quell’uomo poteva essere un bravo avvocato, di quelli che prima pensano a risolverti la grana e poi alla parcella, o uno scienziato, un pianista, uno scrittore. Esclusi che si potesse trattare di un medico: è una razza, quella, che, difficilmente ha dell’umanità negli occhi. Ordinò una birra bionda, alla spina.
«Se vuole gliela porto al tavolo».
«La ringrazio, ma preferisco sgranchirmi le gambe, sono stato seduto per ore al volante».
Poi, senza che io gli avessi domandato altro disse: «Sto attendendo una persona».
Aveva l’aria di uno che non vede l’ora.
E in effetti continuava a guardare il vecchio pendolo che c’è vicino alla porta d’ingresso. Dopo un po’ si decise. Ordinò un’altra birra e si accomodò in fondo alla sala.
Lontano da me, quindi, e da Benito e Francesco, due pensionati che, in un tavolo vicino al banco, concentratissimi giocavano a dama.
Era un afoso pomeriggio di luglio di quattro anni fa. Ricordo che grondava sudore e ogni tanto, lentamente, si asciugava la fronte con un fazzoletto bianco che aveva nella tasca interna della giacca appoggiata sulle spalle.
Finalmente, arrivò la persona che aspettava. Era una signora piuttosto anziana, poteva avere una settantina d’anni portati molto bene, distinta, tutta ingioiellata e profumata. Vestiva un completino viola, il mio colore preferito. Appena la vide le andò incontro. Si abbracciarono e si baciarono con affetto.
«Allora Sandro, come va?» fece lei.
«Bene grazie».
Si sedettero, sempre nello stesso tavolo.
La signora, dopo aver ordinato un bicchiere di acqua naturale, mi domandò se avevo qualcosa di solido – «e di gustoso» specificò – da mangiare. Proposi della crostata di mele fatta in casa.
«Anche se sono fuori orario, devo ancora pranzare. Che ne direbbe invece di un bel prosciuttino crudo magro, oppure meglio: ha della buona bresaola?».
«Ho una bresaola squisita».
«Benissimo, mi faccia un bel panino e me la condisca con limone, olio di oliva e tanto pepe; mi raccomando il pepe, ho uno stomaco di ferro, sa?» disse con un bel sorriso.
Quella signora elegante e disinvolta emanava vitalità. L’uomo invece pareva inebetito, stanco. Fissava il vuoto.
«Gradisce un’altra birra?».
«Come scusi? Ah sì, grazie, un’altra alla spina va benissimo».
Quando tornai dalla cucina con birra e bresaola i due pensionati, che avevano terminato la loro partita a dama, si erano spostati nell’altra sala del bar, la più piccola, che è più ventilata perché dà sull’esterno dove c’è un piccolo spiazzo che ho fatto pavimentare, il pezzo di terra dove una volta mio nonno coltivava rose e pomodori. C’era anche un melo.
Col vassoio mi avvicinai al tavolo dei due clienti venuti da chissà dove; l’uomo, che stava parlando, mi dava le spalle. Non badò a me. Il tempo di avvicinarmi, di posare il vassoio sul tavolo e di allontanarmi mi fu sufficiente per ascoltare.
«Non mi ha sentito rientrare, non sapeva che io fossi in casa. Per puro caso, sento che dice: tu almeno hai un padre che è qualcuno, il mio è una nullità. Anzi no, ha detto: il mio non vale un cazzo. Ho pensato: starà imitando qualche comico, di sicuro non si sta riferendo a me. Però volevo esserne certo. Così, senza fare rumore lo raggiungo. Non stava imitando nessuno: steso nel letto, stava parlando al telefonino con un suo amico, credo. L’ho visto per un attimo, lui non si è accorto di me perché aveva il braccio che gli copriva gli occhi».
Posai velocemente il vassoio nel tavolo, poi, a testa bassa, con la sensazione di avere addosso lo sguardo della signora, mi allontanai. Ma feci in tempo a sentire un’altra breve frase, sempre di lui: «Sono giorni che ci penso, ci penso e piango».
Anch’io, come quell’uomo che non vidi mai più, avevo sentito per caso.
Fu la prima “voce” che segnai nel quaderno dopo la pagina bianca dei “Come va?”.
Ne capitano raramente di voci così: una, al massimo due al mese.