Sto passeggiando col piccolo fuori dal ristorante, un bel ristorante valsesiano, ottima cucina e buoni vini, il servizio è veloce, poca pausa tra una portata e l’altra nonostante il pienone, ché è tempo di prime comunioni. Il piccolo si stufa, e io ne approfitto per sgranchirmi le gambe: c’è un bel prato verde, fuori, ci son mucche, cavalli, il piccolo corre e io lo rincorro.
C’è anche una tavolata di gente fuori, sotto una tettoia. Non son vestiti da primecomunioni: magliette e jens, e tante risate.
Passo, mi allontano col piccolo.
Torno di nuovo, son distante da loro qualche metro.
La donna, maglietta bianca, pantaloni estivi blu “tagliati” sul polpaccio, ha alla destra il marito (credo) e alla sinistra l’altro (suppongo).
Perché succede questo mentre passo, e con la sinistra fumo e con la destra tengo il piccolo per mano.
Succede che il marito (credo) dica all’altro (suppongo): A d’voli ciulela ti?
Traduzione: Vuoi scoparla tu?
Silenzio assoluto, dopo queste parole.
Penso: qui magari finisce a schifio.
La donna si allontana, prende una sedia e va sul prato, chiudendo le palpebre, mentre il sole le abbronza il viso.
Rientro.
Mese: Maggio 2011
paradosso dell’editoria
Ancora Luigi Bernardi, in una vecchia intervista:
Nelle grandi case editrici, nessuno legge un testo se non è passato al vaglio di almeno un paio di “lettori” esterni. Questi lettori esterni sono spesso molto giovani, senza altra esperienza che la propria passione. È l’ultimo paradosso dell’editoria: un testo per essere valutato da chi se ne intende deve prima essere apprezzato da persone alle prime armi, pagate pochissimo, il cui unico interesse è raggranellare una discreta cifretta a fine mese
il giallo è imborghesito
Mi sono sempre piaciute le scritture popolari, perché sapevano nascondere dentro di sé straordinarie opere di frontiera. Il fumetto e la narrativa di genere avevano queste caratteristiche. Pian piano, soprattutto le narrative di genere, sono però andate a collocarsi in un segmento che, oltre all’evasione, prevedeva anche la consolazione. Sono, in altre parole, diventate bugie che non avevano più soltanto lo scopo di far divertire il lettore, ma anche quello, più subdolo, di regalargli sollievo. Se il mondo di tutti i giorni appare cinico e senza speranza, ecco che arrivano i narratori di genere, in particolare i giallisti, a dire che no, nelle loro storie il mondo può ancora essere cambiato, e il bene, i buoni sentimenti, la giustizia sociale, la redenzione morale e tutte queste belle immagini riescono ancora a trionfare. Non è un caso se il giallo è diventato la narrativa di bandiera dei lettori che potremmo definire “di sinistra”: il giallo propone un mondo che non c’è più, il lettore di sinistra lo riconosce come suo e vi si aggrappa disperatamente.
Cose dette da Luigi Bernardi in questa intervista.
ragazzi: educatamente lontani
E’ da più di un’ora che parlo, per l’esattezza un’ora e quaranta minuti. Mi hanno invitato a tenere una lezione sul giornalismo, ho accettato, dico sempre di sì senza mai chiedere soldi. Ho di fronte a me una ventina di ragazzi e ragazze di un istituto professionale religioso; c’è anche la loro insegnante, in fondo all’aula, seduta.
Ha parlato di giornalismo, e i ragazzi mi hanno ascoltato, ho parlato di internet, ho parlato di scrittura. Adesso, dopo un’ora e quaranta minuti, devo parlare di come si fa un giornale.
Cos’è una notizia. Come si scrive un articolo. Il lead. Le 5 W. La titolazione e l’impaginazione. I menabò…
Però mi accorgo, dopo un’ora e quaranta minuti, che questi ragazzi mi ascoltano, sì, e mi hanno pure fatto delle domande, certo, ma sono lontani.
Educatamente lontani.
Dico a me stesso: Vediamo come passare questi 40 minuti, che ho sete, voglia di caffè e di una sigaretta, e poi devo correre al lavoro.
Ho la sensazione che quei ragazzi si sentano delusi da me così come io mi sento deluso da loro.
Domando. Quanti di voi usano internet? Alzano la mano tutti. Quanti di voi sono su Facebook? Quasi tutti.
Quanti di voi hanno letto un libro che non sia un libro di scuola?
Nessuno.
Allora mi siedo. Vedo che quasi quasi si compiacciono nel dirmi “che leggere annoia”, che “tanto non ci sono libri che parlano della nostra vita”.
Li provoco. Dico loro: siete un branco di pecore, vi consolate a vicenda perché nessuno di voi ha letto un libro, ma sappiate che vi state facendo del male.
Affondo ancora di più il coltello.
Dico: Siete destinati a essere dei perdenti.
Parlo di don Milani, della scuola di Barbiana, e loro mi ascoltano.
Dico: Di sicuro non sarò io a convincervi a leggere libri e giornali, ma sappiate, e magari cercate di ricordarvelo, che sarete dei perdenti.
Dico: Ma lo sapete che la televisione vi ha fatto il lavaggio del cervello? Lo sapete che voi avete imparato a parlare un po’ dalla vostra famiglia e un po’ dalla televisione?
C’è una grande attenzione in aula.
MI guardano, vorrebbero dire qualcosa che non sanno dire.
Una ragazzina fa: Me lo dice anche mia madre…
Un’altra, mordicchiandosi le labbra: Lo sappiamo…
Cazzo penso guardandoli negli occhi: questi un libro non l’hanno mai letto ma sanno che affronteranno la vita sapendo di essere dei perdenti. Dei lavoratori interinali se va bene.
Dico loro che la colpa è della mia generazione, non loro.
Cerco insomma di fare un po’ di marcia indietro.
Mi sorridono, alla fine mi regalano anche un applauso.
Prima di andare a fumare una sigaretta bevo un bicchiere d’acqua gassata con la insegnante e la direttrice della scuola, una religiosa giovane e sveglia.
Mi fanno i complimenti.
L’hanno ascoltata con interesse per due ore, mi dicono.
Io però non sono soddisfatto di me.
Quando uno di loro mi avevo chiesto che autore leggere avevo detto, Provate con i racconti di Yates, sono meno noiosi di Pavese e Fenoglio.
Ma va bene anche Moccia, dico…
Ora so dalla direttrice e dell’insegnate che questi ragazzi non hanno una vita facile. E magari non hanno nemmeno i 14 euro necessari per comperarsi un libro.
Ripenso alla domanda-considerazione della ragazzina che mi ha posto almeno dieci quesiti: Ma c’è qualche scrittore che racconta la nostra vita?
No cara ragazza, non credo. Nemmeno io: vorrei ma non so, o so comunque troppo poco di voi.
(Sono stati gentili, comunque con me; m’han detto una bugia, per esempio: che leggeranno).
il monastero della risaia
sorrisi di zingara
La domenica mattina è l’unico giorno che porto io a spasso il cane (ci diamo i turni, causa i miei orari è mio padre che, quasi tutti i giorni, lo porta a spasso).
E son tre domeniche, di seguito, che vedo, davanti a una chiesa, Maria, la zingara. Avrà trent’anni ma ne dimostra di più, ha un bel sorriso, però, nonostante gli manchi qualche dente.
Tre domeniche fa era seduta all’ombra, cullava il suo piccolo bimbo, in braccio. Le sono passato accanto, mi ha detto Buona giornata ma senza porgere la mano, così io, che non do mai nulla agli insistenti ma do qualcosa a chi invece non chiede nulla, le ho dato o uno o due euro, non ricordo. Il signore ti benedica, mi ha detto Maria la zingara, tre domeniche fa.
Due domeniche fa, invece, io ho visto lei ma lei non ha visto me.
Passando, l’ho vista che andava a sedersi sulla scalinata della chiesa. Mi son fermato a vedere, curioso: perché mentre Maria la zingara si stava accomodando è arrivato, stessa messa, stessa chiesa, stessa scalinata, un concorrente, un marocchino credo. Ho pensato, Magari si scannano ora. E invece l’uomo, appena arrivato, dice, a voce alta: Maria, allora, come va? Lei, Maria la zingara, ha risposto nel modo migliore: con una risata bella, sembrava dire quella risata, Come vuoi che vada? Va, ma era anche un saluto, cordiale.
Domenica scorsa, invece, mi ha visto. Era sempre lì, sulla scalinata, quindi io ero all’altro lato della strada. Sapete com’è: si saluta se si conosce e io mica la conosco, Maria la zingara. Lei, però, mi conosce: perché appena mi ha visto mi fa, Ciao, salutandomi anche con la mano.
Ciao le ho detto, pensando: sarà una buona giornata, oggi.
Chissà se Maria legge la mano.
Sarà stato il 1973 o il 1974.
Un mio amico (quante volte abbiamo fatto a botte, quante volte ci siamo presi in giro) improvvisa mente si ammala. Brutta, ma brutta malattia. Non lo vedo per mesi, quando lo rivedo è su una sedia a rotelle. Ha un tumore, è spacciato dicono. In effetti vivrà ancora un anno.
Ecco questo mio amico prima di ammalarsi aveva incontrato una zingara, all’Upim di Vercelli (dove ora ci sono Oracle e la Benetton). Non era solo questo mio amico, ora morto. Era con altri amici che avevamo in comune (ora persi di vista, benchevada ci si vede una volte ogni morte di papa), tutti testimoni, insomma, di quanto ora vado a raccontarvi.
Mentre stanno guadagnando l’uscita una zingara si avvicina a questo mio amico, ora morto.
Gli dice: Dammi la mano.
Lui: Ma non mi rompere.
Lei: Fammi leggere la mano, non voglio soldi.
Lui: Cazzo vuole questa (guardando gli altri, lasciandosi però prendere la mano).
Lei, guardando la mano: Vedo che la fine è vicina, ma dopo la fine vedo il trionfo.
Io questa frase la ricordo bene perché fu lui, già malato, a raccontarmela. Ma gli altri che avevano visto, confermarono.
Altri amici, però, obiettarono (quando lui era già malato): E’ una balla.
Io so solo questo. Una decina d’anni fa chiesi a un testimone. Mi disse, Sì, mi pare di sì.
C’è un pare di troppo.
Però quel mio amico, mentre stava peggiorando, si ricordava della zingara che gli aveva predetto morte e trionfo, e sorrideva, pure lui, un po’ come il marocchino sorride a Maria, la zingara, quando la domenica io passo a portare a spasso il cane e loro son lì, davanti alla chiesa, ad aspettare monete e smorfie.
Pasolini, la celebre intervista (di Biagi)
Biagi: La società che lei non ama in fondo le ha dato tutto: le ha dato il successo, una notorietà internazionale…
Pasolini: Il successo non è niente. Il successo è l’altra faccia della persecuzione. E poi il successo è sempre una cosa brutta per un uomo. Può esaltare in un primo momento, può dare delle piccole soddisfazioni a certe vanità, ma in realtà appena ottenuto si capisce che è una cosa brutta per un uomo il successo. Per esempio, il fatto di aver trovato i miei amici qui alla televisione non è bello. Per fortuna noi siamo riusciti ad andare al di là dei microfoni e del video e a ricostituire qualcosa di reale, di sincero. Ma come posizione, è brutta, è falsa.
Biagi: Che cosa ci trova di così anormale?
Pasolini: Perché la televisione è un medium di massa, e come tale non può che mercificarci e alienarci.
Biagi: Ma oltre ai formaggini e al resto, come lei ha scritto una volta, adesso questo mezzo porta le sue parole: noi stiamo discutendo tutti con grande libertà, senza alcuna inibizione.
Pasolini: No, non è vero.
Biagi: Si, è vero, lei può dire tutto quel che vuole.
Pasolini: No, non posso dire tutto quello che voglio.
Biagi: Lo dica.
Pasolini: No, non potrei perché sarei accusato di vilipendio, uno dei tanti vilipendi del codice fascista italiano. Quindi in realtà non posso dire tutto. E poi, a parte questo, oggettivamente, di fronte all’ingenuità o alla sprovvedutezza di certi ascoltatori, io stesso non vorrei dire certe cose. Quindi io mi autocensuro. Comunque, a parte questo, è proprio il medium di massa in sé: nel momento in cui qualcuno ci ascolta dal video, ha verso di noi un rapporto da inferiore a superiore, che è un rapporto spaventosamente antidemocratico.
Biagi: Io penso che in certi casi è anche un rapporto alla pari, perché lo spettatore che è davanti al teleschermo rivive attraverso le vostre vicende anche qualcosa di suo. Non è in uno stato di inferiorità. Perché non può essere alla pari?
Pasolini: Teoricamente questo può essere giusto per alcuni spettatori, che culturalmente, per privilegio sociale, ci sono pari. Ma in genere le parole che cadono dal video, cadono sempre dall’alto, anche le più democratiche, anche le più vere, le più sincere.
Biagi: Quali sono i suoi nemici?
Pasolini: Non lo so, non li conto: sento ogni tanto delle ondate di inimicizia delle volte inesplicabile, ma non ho voglia di occuparmene molto.
Biagi: Chi sono invece le persone che ama di più?
Pasolini: Quelle che che amo di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Non lo dico per retorica, ma perché la cultura piccolo borghese, almeno nella mia nazione(ma forse anche in Francia e in Spagna), è qualcosa che porta sempre a delle corruzioni, a delle impurezze. Mentre un analfabeta, uno che abbia fatto i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi si ritrova a un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice
Non si sa come (Pirandello e la psicanalisi)
le belle canzoni che raccontano
Belle canzoni,che sono storie belle.
“cose” al salone
Ho salutato gente, non ho salutato gente che dovevo vedere, perché il salone del libro, specie se ci si va per due mezze giornate, è un gran casino. Peggio, poi, se ci si va con un bimbo piccolo da inseguire perché non vuol dare la mano e strilla.
Alla stand di Perdisa, comunque, ho rispettato il mio turno (dovevo firmare copie di Bastardo posto dalle 10,30 alle 13 di domenica).
Sabato, il piccolo, proprio nelle vicinanze degli stand di Marcos y marcos e Perdisa, dove io stazionavo, ha dato spettacolo. Sento che qualcuno dice: Guarda quel bambino, pazzesco, non ha paura.
Alzo lo sguardo e vedo Federico Libero che sta giocando con gli attivisti di Greeen Peace travestiti da scimpanzé; a differenza degli altri bambini che fuggono lui ci gioca, li tocca, e la gente lo fotografa.
Mi avvicino, veglio fargli anche io una fotografia con il mio iPhone. Mentre lo sto par fare una signora, da dietro, mi tocca la spalla e, seria in viso, mostrando la sua macchina fotografia, mi fa, Si sposti che devo fotografare il bambino.
Se permette signora, dico, quel bambino sarebbe mio figlio.
Oh mi scusi, dice…
Gente che incontri, al salone. E discorsi che senti. Per esempio mentre mangio sento che al tavolo vicino tre uomini stanno parlando male di alcuni scrittori che io conosco. Dei tre, si dà il caso, ne conosco uno, che non mi ha visto: è uno scrittore pure lui.
Oppure.
Una giornalista (brava) di una radio locale (molto quotata) mi dice: Gli scrittori italiani? Be’, tanti se la tirano, devi fare le acrobazie per intervistarli. Con gli stranieri è tutto diverso, dicono sì e si rendono subito disponibili.
Non mi ha stupito sentire questo.
Vado di corsa, ora. Stasera il giornale lo chiudo tardi tardi, causa elezioni. Cenerò, se va bene, attorno all’una di notte.
intermezzo
al salone con perdisa
Sabato prendo un giorno di ferie così, in tarda settimana, sarò al Salone del libro.
Mi fermo a adormire a Torino e, il giorno dopo, domenica, sarò allo stand N80 padiglione 2 dove c’è Perdisa a firmar copie di Bastardo posto.
Di sicuro comprerò un bel po’ di libri, dal momento che gli acquisiti on line non mi piacciono.
E’ il mio sesto o settimo salone, non ricordo. Ci sarà con me Federico-Libero detto Cico, mio figlio, di quindici mesi: per lui sarà la seconda volta.