Mese: aprile 2011
Eco-pensiero su internet o carta?
E tanto per restare al dilemma lettura su carta lettura in rete sentiamo cosa ne pensa Umberto Eco
Ovviamente sono un utente di Internet, ho ben otto computer nelle varie case dove capito,ma difendo i diritti e il futuro del libro per una ragione semplicissima: abbiamo la prova scientifica che un libro può durare 550 anni. Prendi un incunabolo, lo apri, sembra stampato ieri e ti permette persino la previsione che forse, se lo lasci in un ambiente poco umido, può durare altri 500-1000 anni.
Non abbiamo nessuna prova scientifica che un dischetto, una chiavetta possano durare più di dieci anni, non tanto perché si possono smagnetizzare,ma perché nel frattempo sarà cambiato il tipo di computer. I computer di oggi non leggono più i dischetti di quindici anni fa.
Profumano, i libri
Ho 14 anni, faccio prima media. Di notte, sotto le lenzuola, con l’aiuto di una pila, rileggo aI pirati della Malesia, di Salgari
Ho 17 anni, e decido di fare taglia da scuola, Mi rintano in un bar, ho paura che entri qualcuno che mi conosca e che possa poi raccontare ai miei genitori che ho marinato la scuola. Il tempo non passa mai. Fortuna che ho con me L’inverno del nostro scontento, di Steinbeck.
Mi rimandano, quattro materie, cazzo.
Ho sempre 17 anni, è il mese di agosto, compirò 18 anni a settembre. Sono a Cortona, ospite di un mio zio. Ho i libri di scuola, certo, ma quando mi incontro con M, di cui sono innamorato, mi porto appresso Lavoro, salariato e capitale, di Marx. Se mi promuovono (mi promuoveranno) ti vengo a trovare a Roma, a settembre, dico a M. Che mi dà il suo numero di telefono: 06.52xxxxx. Lo scrivo a matita sul libro.
Agosto dell’anno successivo, sono a Celle Ligure, ospite di un mio compagno di classe, ci siamo appena diplomati. Lui va al mare, io vado in giro. Ho sempre con me Il profeta armato di Isaac Deutscher. Gran bel libro di 500 pagine, gran bella copertina. Ho fatto crescere la barba, funo delle sigarette cjhe si chiamano Belga. Penso, andando a spasso, che quel libro mi possa aiutare a fare colpo sulle ragazze.
Un giorno ne vedo una che piange, ha appena litigato con il suo ragazzo. E’ una bella ragazza, e io so di essere un bel ragazzo. Timido. Che faccio? Nulla. Vedo che però, merda, un ragazzo della mia età si avvicina alla ragazza che piange, sconsolata, sul lungomare di Celle, fregandosene della gente. Mi incazzo con me stesso quando vedo che quel ragazzo si avvicina a lei, le dice qualcosa e poi, mentre lei continua a piangere, le posa una mano sulla spalla. Mi do del coglione e dell’imbranato. Dura un attimo. La ragazza infatti non gradisce le attenzioni del ragazzo disinvolto: e gli molla un ceffone e poi se ne va, lasciandolo ad accarezzarsi la faccia. No, non pensai d’averla scampata. Ricordo che pensai che ero un imbranato, punto.
Ho 25 anni, lavoro in fabbrica, faccio il turno del pomeriggio, dalle 14 alle 22. Di mattina sto con mia figlia Sonia, che ha due anni. E’ buona, silenziosa. E un mattino è più buona e silenziosa del solito. Vado a vedere che fa: bene, anzi male, mi ha succhiato la copertina di Vicolo Cannery di Steinbeck. la copertina e le prime pagine di quel libro sembrano le impronte che prende un dentista. Ho la tentazione di gettare via il libro, poi invece non lo faccio, e ne son contento, oggi…
E qua mi fermo.
Scrivo, ora, nel mio piccolo studio, accerchiato dai miei libri. Tanti di loro, tante copertine, tanti titoli, profumano di ricordi come nessun e-book profumerà mai.
Profumano, i libri.
Una vecchia foto, finita chissà dove
Ho rivisto Effe, stamattina. Occhi scuri, orecchini da zingara.
Ora che sei diventato importante non saluti più?, mi fa sorridente.
Indovina indovinello, che sono?, dice ancora divertita, allungando il collo verso di me, a pochi centimetri da me.
Provo a dire, ma poco convinto, Sei Effe?
E poi ci siamo abbracciati.
E poi le chiedo la cosa più stupida, Effe ma quant’anni c’hai?
Quarantotto, come li porto? A quarantotto si può anche dire cinquanta…
Ma sei sempre bella, le ho detto.
Ma vado incontro ai cinquanta, m’ha detto.
Ma io pensavo tu ne avessi di meno, ti pensavo parecchio più giovane di me, le ho detto.
L’avevo vista per l’ultima volta trent’anni fa: a diciott’anni si era già sposata e aveva un bimbo appena nato. Ma era stata la visita di un attimo…
Io ho dodici anni, lei sei. Effe è mia cugina prima, figlia di un fratello di mio padre morto giovane.
Ho una foto nella testa, ma non so dove sarà finita quella foto: io, lei, un suo fratello e un cane, Battaglia, a cui un altro fratello di mio padre aveva insegnato a salire sugli alberi.
Su Battaglia, e Battaglia, un segugio impuro, sembrava un gatto, e noi bambini si guardava lo spettacolo e una volta mio padre con la Kodak ci immortalò, e poi finì non male ma nemmeno bene, tanto per Battaglia quanto per Effe.
Battaglia fu visto da un turista romano, che s’imnpressionò a vederlo salire sugli alberi e diede un bel po’ di soldi a mio zio che glielo vendette (e io questa cosa la qui la racconto nel prossimo libro che uscirà a novembre per Perdisa, Vicolo del precizio, la racconto perché ci restai male, tanto).
Effe invece andò a vivere con un suo lontano parente che l’adottò ed era una buona persona, dissero che era stata fortunata Effe, perché poteva crescere bene, lontana dalla povertà, così la persi di vista, la rividi solo una volta, quando divenne una giovanissima mamma.
Fu fortunata, ma anche no: perché a sette otto anni andò a vivere lontana dai suoi fratelli. Ha un altro cognome, Effe.
Ma a Cortona succede questo: io vado e mi raccontano di persone che ho conosciuto, persone che ho conosciuto vanno e sanno di me, e succede che non ci si veda, io con queste persone, però sappiamo gli uni degli altri, e io sapevo di Effe e lei sapeva di me, e io sapevo che Effe è rimasta legata al ceppo di origine, ai suoi fratelli e anche ai fratelli del suo povero babbo che morì quando lei avrà avuto due anni.
Vuole riappropriarsi del suo vecchio cognome, mi hanno detto, spesso.
lei stamattina, prendendomi sottobraccio, mi ha detto, Sai mi sento sempre una Bassini. Che è un cognome povero, proletario, contadino.
Senti, m’ha detto, vediamo di metterci d’accordo, la prossima volta ci si incontra tra sei sette anni, che se ci si vede fra trent’anni magari siam bell’e che rincoglioniti.
E poi senti, mi ha detto seria, meglio morire prima che mori vecchi e rincoglioniti, che dici?
Poi è scappata via, sul suo fuoristrada; e solo allora mi sono reso conto che aveva fatto chilometri per rivedere me.
Ha sempre sorriso, stamattina.
Nella foto dove ci siamo io, suo fratello e il cane Battaglia aveva il viso di una bimba sperduta.
Chissà che fine ha fatto quella foto. Ma ci sono foto che non si dimenticano.
la processione comunista del venerdì santo
Sono a Cortona, ho appena fatto la spesa, quanto mi serve per il pranzo, giornali, sigarette.
Per pranzo ho preso pecorino di Pienza media stagionatura, dei grossi carciofi sott’olio, pane toscano e Nero d’Avola.
Per strada ci sono due donne che stanno rincasando, avranno settanta e forse più anni.
Si stanno facendo gli auguri.
A voce alta (come si usa a Cortona).
Finita la tiritera del salutami questo e quest’altro una dice:
Allora ci si vede.
E l’altra: Mah speriamo.
E ridono. Potrebbero salutarsi, lasciarsi così e andare incontro ai preparativi pasquali, invece quella che ha detto “Mah speriamo” dice a quell’altra: “Ma hai saputo della pora Rosa, l’han trova morta in casa”.
E ripigliano a cicalare.
(Non è un racconto, è tutto vero, salvo il nome, Rosa, che è inventato; si chiamava così mia nonna paterna, che riposa nel camposanto di Cortona).
Più bello un siparietto serale. Una giovane coppia, in auto (una Smart) domanda a un pensionato se sta arrivando la Processione del venerdì santo.
Non siamo di qui, precisano (e in effetti l’accento è nordista).
Lui li guarda e dice, Arriva arriva, ma fate attenzione, son tutti del partito comunista.
I due si guardano increduli e poi guardano l’uomo che si incammina: devono chiedere indicazioni ad altri.
Io per la cronaca ero fuori da una trattoria a fumare. Verdure sott’olio come antipasto, gnocchi con carciofi e taleggio di primo, due bicchieri di Chianti, cantuccini e vin santo prima del sipario.
Mi sono allontanato dalla piazza mentre arrivava la banda e la Processione comunista del venerdì santo.
Bastardo posto, il booktrailer
le poesie di anna maria
Anna Maria Curci ha scritto e ora è pubblicata una silloge di poesie
Inciampi e marcapiano.
E’ un link che dà l’idea, questo.
Anna Mariaha un blog, questo, ha partecipato ai Racconti a quattro mani, ha tradotto poesie
Il suo libro, io, lo prenderò al salone di Torino, altrimenti lo ordino.
Ha scritto nel suo blog:
La parola scritta si fonde nel ricordo con la parola recitata: le innumerevoli letture della Commedia in classe o negli incontri, la domenica mattina, alla “Casa di Dante” a Trastevere; i Canti di Catullo, Alla stazione in una mattina d’autunno di Carducci risuonano nelle orecchie e suggeriscono ancora oggi rime e ritmi.
racconti
Ci sono buone possibilità (credo tante) che un mio racconto lungo, intitolato Lingua macabra, divenga un cortometraggio e, anche, un prodotto carteceo prodotto da una gran bella casa editrice, la Marcos y marcos.
Il progetto, che si chiama Milano Noir, vede coinvolti otto registi e otto scrittori…
Se volete, trovate tutto qui
e qui.
Allora, Lingua macabra. L’ho scritto la scorsa estate, al mare, a Castiglione della Pescaia, durante le ferie.
A me piace il mare, certo, ma non la spiaggia affollata. Però, prendere o lasciare, io ho due settimane di ferie ad agosto e una durante l’anno. Con le spiagge affollate io mi rifugio sempre in un bagno attrezzato con bar attrezzato, così mi piazzo a un tavolino, se c’è una presa per il pc tanto meglio, e passo le mie giornate a scrivere, leggere, bere caffè, fumare il toscano facendo sbuffarele signore che odiano il sigaro.
La scorsa estate dovevo scrivere due cose.
Senza voglia.
Dovevo, in primo luogo, scrivere un racconto di almeno 50mila battiute per l’editore Senzapatria. E in testa non avevo niente. Fortuna che avevo messo da parte un racconto, di 20mila battute.
La storia di questo racconto è (per me) carina. Mesi prima avevo ricevuto una mail. Una gentile ragazza mi invitava a scrivere un racconto da inserire in un’antologia. Le avevo detto di sì. E avevo scritto Il monastero della risaia, una via di mezzo tra un giallo e una farsa anticlericale. Era però successo questo. Quando aveva letto Il monastero della risaia la ragazza che mi aveva contattato aveva cominciato a farmi osservazioni… da maestrina. Dovresti fare così e questo non va bene, mi aveva scritto.
Non mi era mai successo con gli editor.
La ragazza editor non era, io però non ho la puzza sotto il naso; le sue osservazioni, però, non mi convicevano: e se non ne facciamo più nulla?, le scrissi.
Va bene, aveva detto lei.
Bene, lasciamoci così senza rancor avevo detto io.
Ad agosto, quindi, mi ritrovo a completare Il monastero della risaia.
Ma per scrivere non ho il tempo che vorrei, perché i tempi li detta il bambino, perché devo seguire anche i racconti a quattro mani, che faccio ogni anno qui sul blog, perché scrivo relazioni su relazioni agli editori del mio giornale: ci son problemi, grossi, e io guardando il mare vedo la redazione del giornale.
Mentre sto rivedendo e completando Il monastero della risaia mi arriva una mail: sono invitato a partecipare a un progetto, Milano Noir.
Sono invitato con altri scrittori: i nostri racconti però verranno selezionati da alcuni registi, e quindi potrebbe anche essere che si scriva per nulla.
Rispondo immediatamente di no.
Ho altro per la testa, poi conosco Milano, ma non così bene da ambientarci una storia.
Da ragazzo mi ero iscritto alla Statale, ogni tanto ci vado, o ai Navigli o in qualche libreria. O da qualche amico. Ma non conosco Milano comne conosco Torino.
Poi ci ripenso. E dico, Tentiamo.
E butto giù una prima stesura.
La seconda, quella inviata in lettura, la riscrivo a settembre, dopo un paio di escurisioni a Milano (che dista da Vercelli 75 chilometri).
Un paio di mesi dopo ricevo la mail in cui mi dicono che il mio racconto è stato scelto.
Mi sa che anche l’estate che verrà sarà più o meno così. Scriverò racconti, un genere che mi sta appassionando.
Per ora mi limito a leggerne.
Il monastero della risaia, nel frattempo, è uscito. Fortuna che alla ragazza non fosse piaciuto. Oddio, magari aveva ragione lei.
E vedremo come va a finire Lingua macabra: io solitamente scrivo di notte, Lingua macabra sarebbe la prima cosa scritta da me sotto il cielo della Toscana, in pieno giorno, e in un bagno che non mi piaceva nemmeno tanto: preferisco quelli del Salento.
incontri in chiesa
Entro nella chiesa che credo vuota, al bimbo piace entrare nelle chiese così sente l’eco della sua voce, dirà ah-ah-ah, io al bimbo dirò, non urlace Cico (ché poi alla mamma fai fare figuracce quando ti porta a messa), ma tanto lo so che lui non mi ascolterà, e invece no, stavolta mi ascolta, sarà che è una grande chiesa che mette soggezione, così non mi molla la manina e procediamo, silenziosi, e mentre procediamo vedo, nella penombra, due teste, un uomo e una donna, la testa di lei è inclinata su quella di lui, stanno bisbigliando “cose” ma quando il bimbo emette il suo primo ah i due si girano di colpo a guardarci, spaventati quasi.
Io procedo, il bimbo è attratto dai ceri, ne accendo uno, metto due euro, poenso che forse son troppi ma va bene così, e mentre porto via il bimbo, perché lui il cero lo vorrebbe portare via e quindi protesta, dico alla statua della Madonna, Mi raccomando, se esisti proteggilo.
E poi camminiamo, ancora un po’, la chiesa è sempre vuota ma il portone è aperto, c’è la primavera fuori, quindi dico al bimbo Vieni, ché andiamo a vedere gli uccellini, ma lui niente non mi ascolta, vuol continuare a girare tra i banchi, fare ah-ah-ah.
Quando si decide si decidono anche loro, i due visti prima, forse perché in chiesa sono entrati dei turisti. E li incrocio per un attimo, proprio mentre guadagno l’uscita. Lei davanti, lui dietro. Io guardo lei, lei guarda il bimbo. Ha gli occhi lucidi.
Io giro a sinistra, verso il centro della città, anche la donna. L’uomo, invece, va a destra, verso la stazione.
lagne ricorrenti
Conversazione telefonica.
– Ciao Lisa, c’è Carlo?
– Ciao Augusto, sì c’è… ma…
– Ma?
– Preferirei non disturbarlo, è depresso, Carlo ha passato una brutta estate, una delle peggiori da quando lo conosco, mangia poco, parla poco, è scontroso… tu come stai?
– E’ morto mio fratello.
– O mamma, e quando?
– Ieri, un incidente, un brutto incidente, volevo essere io a dirlo a tuo marito, si conoscevano, e poi… anche se io e tuo marito abbiamo preso strade diverse abbiamo pur sempre lavorato dodici anni insieme…
– Un incidente automoblistico o sul lavoro?
– Automobilistico, uno scontro frontale
– O mamma, però ascolta, credimi, Carlo è messo male, sta male, pensa che ha ripreso a fumare…, ieri sera non ha voluto parlare nemmeno parlare con sua mamma
– Ah
– Sai che Carlo è impallinato per le moto d’epoca, ricordi no?
– Le Guzzi d’epoca e il Milan, le sue grandi passioni… certo che ricordo
– Bene, anzi bene un cavolo… te la faccio breve, è successo che la vecchia Guzzi è stata rubata, e io penso che siano degli zingari che nemmeno sanno che quello è un pezzo pregiato, ma non è tutto, è successo che Carlo un mese fa ne ha comperata un’altra, un’altra Guzzi e…
– Lisa… Lisa…
– Non chiedermi l’anno perché sai che non ci capisco nulla di moto…, solo che appena l’ha pagata si è accorto che…
– Scusa ma…
– No aspetta, si è preso una fregatura che non ti dico, ma cavolo, già lui, e tu lo sai com’è fatto lui, tende a deprimersi per nulla…
– Scusa Lisaaaa…
– Augusto, ma perché urli?
– Lisa, non so se hai capito, ma ieri, cazzo, è morto mio fratello, cazzo.
…….
Fine della telefonata.
Qualcosa del genere è successo. Davvero.
Allora. Giorni fa solo su facebook ho postato una nota sui miei malesseri editoriali. Dopo mi è venuta in mente questa telefonata. E’ anche questo il brutto di chi scrive e magari pubblica o non pubblica: corre il rischi di diventare patetico, di chiamarsi Isa.
Oddio: è anche vero che a volte – io almeno – parlo di scrittura per non parlar di altre grane. Solo a volte. Spesso mi sa che son patetico. E che lo sarò ancora, almeno qui.
l’arte del non detto
Dicevo, ieri sera a un’amica – conversazione telefonica mentre portavo a spasso il cane che inseguiva gatti – che oltre ai racconti di Yates per me sono fondamentali quelli di Richard Ford, che per diverso tempo non ho letto: che vado a pardere tempo, io, con l’autore di Independence day?
Richard Ford, invece, è un maestro: del non detto.
Quando si scrive, infatti, conta – ovvio – quel che si scrive ma conta – e qui non è altrettanto ovvio – quello che non si scrive.
Non si tratta solo di “tagliare”.
La vera arte è tagliare, diceva Ezio Taddei,scrittore anarchico di Livorno, ma anche Virginia Woolf e altri concordano.
Si tratta di far capire facendo parlare uno sguardo, il movimento di una mano.
Leggere Richard Ford, ho detto a questa mia amica, è assai più utile di un corso di scrittura creativa.
Che poi, la scrittura mica si insegna, dicevano Flannery O’Connor e Yates, per esempio.
L’arte del dosaggio – quanti aggetti e quanti avverbi – si impara, per esempio, leggendo, magari Calvino.
L’arte del dire senza dire si impara magari leggendo, di Richard Ford, Rock Springs.
il costume segreto di mamma
In primavera questa casa sembra una casa fatta apposta per la primavera e per nessun’altra stagione. Appena entrati, dopo due metri, volendo, e in primavera certo che si vuole, anziché proseguire verso il corridoio si può, e si deve in primavera, aprire un portafinestra, sulla sinistra, che dà in un terrazzo né grande né piccino.
Non so dirvi i metriquadri, io, ho in uggia i numeri: mi ricordano mio padre, che faceva il contabile e che si vantava di saper fare complicate moltiplicazioni a mente.
So dirvi che sotto una tettoia c’è un tavolo per quattro persone e uno sdraio, quindi più avanti, verso la ringhiera, c’è ancora spazio, lì la tettoria non arriva, ci potrebbero stare un altro tavolo da quattro persone e altre seggiole o sdrai. Lì la mamma stendeva un asciugamani e in primavera e in estate e anche a settembre, perché a settembre certi giorni sembrano primavera, prendeva il sole.
Se avessi imparato da mia madre, ma ho preso solo i difetti di mio padre e di mia madre conservo solo i ricordi e le foto e alcune sue lettere, se avessi imparato da mia madre, dicevo, io, nel terrazzo, avrei piante con fiori colorati di cui non so né ricordo il nome. Ricordo che profumavano alcuni, ricordo i fiori piccoli e dal colore viola, ricordi i meno belli, che la mamma diceva servivano a tener lontane le zanzare, cioè i gerani. Nient’altro.
Se non fossi pigro mi sarei ingegnato, avrei cercato su internet, oppure mi sarei procurato un manuale di giardinaggio ma vedete, vedete: non è solo una questione di pigrizia. E’ che quei fiori, io, li voglio lasciare sul terrazzo di mia madre, ricordando com’erano, mamma fiori e terrazzo, trent’anni fa.
E se non avessi paura dei pipistrelli io in questo balcone ci dormirei nelle notti d’estate, perché l’appartamento è troppo piccolo, perché sto all’ultimo piano e non ho i soldi né la voglia di comprare un condizionatore, perché la città è caldissima a luglio, agosto, settembre.
E comunque: io voglio continuare ad avere paura dei pipistrelli. Non accetto che mio padre, mi pare di risentilo, mi dica che faccio ridere se mi spavento per un banale pipistrello.
Resterò fedele a quella paura, io, almeno a quella.
Ricordo che la mamma prendeva il sole, stesa sul terrazzo. Lo faceva solo quando papà non c’era, lui era geloso ed era follemente innamorato della mamma: ma follemente sta per folle per davvero.
Tu ami soltanto me?, diceva in mia presenza, con la mamma che, a testa china, assentiva, ma si vergognava.
Mamma, ma perché non andiamo mai al fiume a prendere il sole? le domandai una volta. Tacque, perché c’era anche papà; quando lui se ne andò mi disse “non vuole che io metta il costume da bagno”. E mamma un costume da bagno ce l’aveva, un due pezzi rosso. Teneva la mutandina nel cassetto con le altre mutandine di pizzo, e il reggiseno con gli altri reggiseni: evidentemente sapeva e sperava che papà non se ne accorgesse.
Però la mamma sapeva che poteva fidarsi di me, e quando papà non c’era prendeva il sole e parlava con Giulio, il portinaio, che (io lo so, non so se lo sapevo allora o se poi l’ho saputo dopo, crescendo e quindi pensandoci, che mamma e Giulio si mettevano d’accordo) arrivava, si appoggiava alla ringhiera, fumava in continuazione delle sigarette puzzolenti, e con gli occhi divorava la mamma, che era una gran bella donna.
Mamma sapeva che io non avrei mai raccontato a papà né che lei prendeva il sole né che quando lo prendeva parlava con Giulio.
Nel palazzo, sapevano tutti che Giulio aveva una moglie che lo riempiva di corna. Col letturista del gas, col dentista del secondo piano, col postino no, ci aveva litigato, col signor A.G., che era ricco e la portava a Milano alla Scala, diceva la panettiera a mia madre.
Ma chi sparlava tanto di Giulio era papà. Sparlava ridendo.
E io sono contento, o se lo sono, che mamma lo abbia cornificato con Giulio. Non so se l’ho capito allora, quando mia mamma cominciò a dirmi che potevo uscire “proprio” quando lei prendeva il sole (con Giulio lì, che si fumava le sue sigarette, e gli tremavano le mani), o se l’ho capito poi.
Però una sera, mentre papà ridendo diceva che Giulio era sicuramente un grande cornuto perché gli avevano detto che aveva preso in bocca il coso del prete (ero maggiorenne, papà dal giorno del mio diciottesimo compleanno disse che ero cresciuto e quindi potevo capire certe cose e si poteva anche dire cazzo, in casa nostra), ecco quella sera dicevo: io e la mamma ci guardammo e ridemmo anche noi, e papà ci guardò incazzato, e noi smettemmo perché papà aveva un brutto carattere, permaloso e vendicativo, sapevamo, io e mamma, che si sarebbe vendicato con lei.
Quando Giulio morì la mamma pianse più della moglie di Giulio, ne sono certo.
Io no, non piansi, ma non piansi nemmeno quando morì papà, era un uomo meschino, a suo modo violento: non alzava mai le mani ma di fronte agli estranei pretendeva che io e mamma gli dessimo sempre ragione.
Quando morì mamma piansi senza farmi vedere.
Piansi dopo, in questa casa, andai a frugare dappertutto, mi sarebbe piaciuto ritrovare quel costume rosso, macché, e piasi e in questo terrazzo dove la rivedo che sorseggia il suo caffé e dove la risento che canta, sorridendomi
I found my love in Portofino perché nei sogni credo ancor