Le prime pagine del mio sesto romanzo, Vicolo del precipizio, che uscirà il 9 novembre pubblicato da Perdisa.
Torino, luglio
La tazza è quella del latte, dei biscotti e di «sbrigati Tiziano, sei sempre l’ultimo, guarda che chiudon la scuola».
Sta sorseggiando il suo caffè forte e amaro, è in piedi, è sul terrazzino. Dopo che avrà finito di bere, porterà la tazza in cucina, la laverà e la asciugherà con cura, quindi si metterà a rincorrere i ricordi, scrivendo fino all’alba. La tazza è sorretta con la sinistra; la destra è sotto, per precauzione, metti che caschi. Non è un gesto di sempre: è di stasera. Stasera, per la prima volta ha pensato che questa tazza bianca lo ha seguito, sempre. E dovrebbe essere nata prima di lui, dalle mani di un cocciaio.
Fa caldo stanotte, a Torino. Sono le dieci e venti minuti e, ogni tanto, arriva qualche brezza di vento. Si è appena lavato la testa. Un rito: se non ha i capelli lavati non riesce a scrivere, né per altri né tantomeno per sé. Ha tutto quel che gli serve, qui sul terrazzino. Il computer portatile, due sigari toscani accuratamente tagliati in quattro mezzi, la compagnia discreta e silenziosa di Giada, la gatta che gli si sta strofinando tra le gambe, la fotografia che suo padre il mese scorso ha scattato alla mamma, di nascosto, al risveglio, mentre spalanca la finestra della camera da letto.
L’ha fotografata di spalle, babbo Felice. Oltre la vestaglia nera della mamma e i suoi capelli bianchi s’intravvedono alcuni rami dell’ulivo che salgono dal campo, sotto casa, e poderi lontani, verso la pianura della Valdichiana.
Il suo vecchio, quella foto, gliel’ha regalata due giorni fa – la solita visita veloce, un giorno e una notte, un altro giorno e un’altra notte con partenza al risveglio – quando Tiziano è tornato al paese. Gliel’ha allungata prima che partisse, incorniciata, senza dir nulla. Trattenendo le lacrime a stento, ché la Stefania non è più la Stefania.
Dopo averla messa a letto, quel che c’era da dire l’avevano detto la sera prima del suo ritorno, tra un bicchiere di vino buono e qualche biscotto fatto in casa, non è ancora tempo né di noci né di castagne.
Con la tazza del caffè ormai vuota e il cielo di Torino illuminato dalla luna piena, sta risentendo la voce del suo vecchio, ora. Gli sta raccontando di quel giorno di maggio, un lunedì, quando nella basilica di Santa Margherita sposò la Stefania. Alla cerimonia c’erano anche i genitori di Tito con Tito che venne sgridato, perché correva e smaniava proprio quando il prete, solennemente, diceva, «Felice, vuoi prendere tu questa donna come tua legittima sposa?»
«E pensare che sembra ieri» ha aggiunto, abbassando lo sguardo, solo due giorni fa, suo padre.
Ha pensato, lui poi, tornando in treno, che deve partire da quella frase, E pensare che sembra ieri, per rimettersi a scrivere. Dai ricordi: se scrivi qualcosa resta.
E’ vero, dei ricordi, se scrivi qualcosa resta. Lo penso pure io. Ciao!
con una ventina di righe , ci tiri dentro le tue storie,
sento l’amaro in bocca e non è il caffè…..
i figli dei fornai non fanno mai colazione con il padre.
Come disse una volta un tizio, tanto tempo fa….. :-)
Che eleganza aprire con: Torino, luglio.
Per me è già un tocco particolare. La definizione di un luogo e di un tempo non troppo definiti, forse privati, come nell’attacco di una lettera importante.
Ciao,
Luigi
sì, ma una spruzzatina, forse due…
Promette bene. E mi sembra ci sia una spruzzatina di autobiografia, anche…