Ponto, ponto

Nella pancia di questo blog ci sono 140 bozze, roba non pubblicata, insomma.
Questa è del 2012.

 

Stamattina.
Sto camminando per strada, insieme a Federico Libero. Che mi fa penare. Dammi la manina: No. Dammela. No. E mi fa cenno che vuol venire in braccio. Bene, lo prendo in braccio, ride, e cerca di rubarmi gli occhiali. Lo rimetto giù. Manina: No.
E avanti così.
A un tratto, però, cede: e mi dà la manina. E io ho voglia di fumare. Caricare la pipa non è facile opto per mezzo toscano.
L’accendo.
Squilla il telefono, non sento nulla.
Pronto, pronto? (E Federico Libero: ponto, ponto).
A un certo punto sento una voce, mai sentita. Mi dice: Abbiamo avuto il suo numero dall’ufficio stampa di Perdisa ha tempo per una breve intervista su Vicolo del precipizio?
Veramente sono per strada col bambino, dico.
Possiamo provare lo stesso?
Quanto durerà?, domando.
Tre minuti.
Parte l’intervista. E Federico Libero mi fa cenno che vuol essere preso in braccio.
Ci parli di questo libro, iniziamo dal titolo.
Vicolo del precipizio esiste davvero, dico, e vado avanti, col sigaro sul lato estremo de labbro a sinistra e Federico Libero in braccio, a destra.
Stranamente fa il bravo.
Mentre sto parlando, però, si avvicina al telefono e dice: Ponto, ponto, ponto.
Non ho fatto in tempo a sentire il nome della radio, alla fine.

Maltrattamenti

Ci sono notizie di cronaca che fanno più male. I maltrattamenti di Vercelli, oggi, fanno male a tutta una città.
Fino a due anni fa, io, ci portavo mio figlio, nella scuola dei maltrattamenti.
http://www.infovercelli24.it/2017/11/23/leggi-notizia/argomenti/cronaca-10/articolo/maestre-arrestate-il-comunicato-della-questura-e-il-video.html

 

Facevo terza elementare, e i maestri che alzavano le mani non facevano notizia. Un giorno il maestro disse che aveva bisogno di una bacchetta di legno per punire chi non gli dava retta. Il giorno dopo un mio compagno, si chiamava Guido, ne portò una e gliela donò. Poi, appena raggiunto il banco disse qualcosa al suo compagno di banco, risero. Guido, vieni un po’ qua, disse il maestro. Guido non capì, io sì, invece, immaginai cosa sarebbe successo: il primo che pianse per una bacchettata sul dorso della mano fu proprio lui, Guido.

E’ proprio il caso di dire “altri tempi”.
Però le immagini viste oggi fanno male. Ho visto una mamma piangere. Non sapeva, non immaginava.

Timidezza (dal vecchio blog Appunti)

Leggo libri, anzi no, ne inizio tre, quattro cinque, poi a fatica ne finisco uno. E non scrivo più niente, da tempo. Da giorni e giorni mi chiedo se scriverò ancora. Per la prima volta ho riletto uno dei miei 11 libri pubblicati. Lo scommettitore. Ne parlerò (credo). Adesso sto recuperando da web.archive.org i post che scrissi quando aprii il mio primo blog, Appunti. Creerò una pagina, con il copia incolla dei post più significativi.

Ecco un vecchio post. Lo scrissi il 29 marzo del 2006.

Timidezza

29 Marzo 2006

È il 1987. Torino, Palazzo nuovo, quarto piano, dipartimento di Storia. Devo sostenere l’esame di Storia del risorgimento. Ho parecchie lacune. Per esempio non ho studiato la rivoluzione americana. Aspetto di essere chiamato. Accanto a me, in attesa, c’è un ragazzo. È preparatissimo, sa tutto, così ne approfitto: e sulla rivoluzione americana mi dice tutto tutto. Insomma: è molto ma molto più preparato di me.
Veniamo interrogati insieme. Io dall’assistente (carogna) lui dal docente (Narciso Nada, il professore con mi mi sono poi laureato). Poi ci invertiamo: lui dal prof io dall’assistente. Faccio in tempo ad ascoltare il mio compagno d’attesa: le cose che mi diceva prima, ora, le balbetta, fa fatica ad esprimersi, è in crisi, capisco che rischia. Io invece me la cavo.
Finale di partita: io 30, lui 24.
Era contento, uscendo. Ma lui sapeva da 30, io da 24

Incipit lampo dei miei romanzi

Signorina, è un bel mestiere il nostro, è bello perché ci permette di incontrare persone e storie. Ma c’è una storia, quasi mai raccontata: è la storia del giornale stesso, e di chi lo fa”.

Si sono accomodati nelle poltroncine blu. Rileggono gli appunti, sorseggiano il caffè della macchinetta, parlottano, qualcuno sbadiglia. Aspettano o un cenno o una parola del direttore Antonio Sovesci che è seduto davanti a loro. In questo momento, sta cambiando la cartuccia di una penna stilografica verde, di una marca che non esiste più. Gliela regalò sua madre quando ha iniziato a lavorare al giornale, una vita fa; dice che è il suo portafortuna.
(Forse non morirò di giovedì, inedito)

 

L’uomo si alza a fatica dalla poltrona, le gambe malferme sembra- no cedere, invece, trascinando i piedi, muove qualche passo verso la finestra, scosta la tendina, guarda le poche case ancora illuminate, controlla l’orologio. Ha fissato il niente per ore, senza accorgersi che era sopraggiunta la no e. Finalmente. Perché la no e porta il silenzio e il silenzio può portare le voci. Torna a sedersi sulla poltrona color cremisi. Nella stanza semibuia arriva un po’ di luce oca dai lampioni. C’è afa stano e a Torino, eppure la finestra è chiusa. L’uomo – dalle movenze sembra un vecchio, e invece ha poco più di cinquant’anni – sta sudando, ma sembra non curarsi del caldo. Ha i calzoni grigi un po’ spiegazzati, una camicia bianca con le maniche lunghe tutta abbottonata, fin sotto il pomo d’Adamo; i polsini no, almeno quelli sono slacciati. Sta bevendo whisky a garganella, neanche fosse gazzosa, e sta fumando incessantemente; di tanto in tanto tossisce.
(La Notte del Santo, Time Crime Fanucci, 2017)

La pioggia e il vento che fanno sbattere le finestre l’hanno svegliata. Sono le tre passate da quattro minuti. Luca si sarà addormentato davanti al computer. Deve svegliarlo, avrà la schiena a pezzi. Lo chiama. Niente. Il computer è acceso, ma Luca non c’è. E non è in bagno, non è in cucina, né sul balcone a fumare una sigaretta di nascosto (ogni tanto lo fa, come se lei fosse fessa). Purtroppo non può essere nemmeno fuori con Fosca, pensa Andreina, ma è un pensiero da gettare via altrimenti piange, perché Fosca è stata soppressa; inutile quindi andare in balcone a controllare se c’è il guinzaglio. C’è. Quando va a stendere la biancheria non ha il coraggio di guardarlo. Rimarrà lì, croce sso sul muro. “Il guinzaglio dell’unico cane della mia vita”.
(Vegan. Le città di dio, Tlon 2016)

Torino, luglio. La tazza è quella della sua infanzia, era quella del latte, dei biscotti e di «sbrigati Tiziano, sei sempre l’ultimo, guarda che chiudon la scuola». Sta sorseggiando il suo caffè forte e amaro, è in piedi, quando avrà finito di bere porterà la tazza in cucina, la laverà e la asciugherà con cura, quindi si metterà a rincorrere i ricordi, scrivendo fino all’alba. Anche se non è mancino, la tazza è sorretta con la sinistra; la destra, però, è sotto, per precauzione, metti che caschi. Non è un gesto di sempre: è di stasera. Stasera, per la prima volta ha pensato che quella tazza lo ha seguito, sempre. Fa caldo stanotte, a Torino.
(Da “Vicolo del precipizio”, Perdisa Pop 2011).

Sotto i portici, di notte passate le tre, il manichino nudo e senza sesso del negozio d’abbigliamento non si vergogna, come succede di giorno, se qualcuno, per caso, si ferma e lo guarda. È notte, notte di marzo stanotte, piove forte. In questo momento, Paolo Limara, fissando la vetrina del manichino nudo, ha appena incrociato i suoi occhi; non l’ha fatto apposta, non avrebbe voluto, eppure è successo.
(Da “Bastardo posto”, Perdisa Pop 2010).

Si parlava poco di lei. Quando se ne parlava i vecchi dicevano, ma solo in certe occasioni, banchetti funebri, domeniche nebbiose trascorse tra amici e parenti a mangiar castagne, dicevano, questi vecchi, che era «come una santa». Santa Nunzia del bosco. O dei castagni. Aveva poco più di vent’anni quando lasciò il Palazzone per andare a vivere come in clausura nel cascinale in fondo alla valle, costruito in una sola estate dai muratori venuti da lontano con muli e cavalli da tiro, in fretta, e un capomastro che urlava, e gente armata su cavalli e mule, a controllare. E di lei per anni e anni si disse, ma si seppe poco. Si seppe, ma si disse poco del suo peccato.
(Da “La donna che parlava con i morti”, Newton Compton, 2007).

L’origine di tutto si perdeva lontano. Scommetto che da qui alla scuola riesco a correre senza respirare. Scommetto che se la mamma me le dà col battipanni io non piango. Scommetto che se il maestro mi guarda cattivo io non abbasso gli occhi. Scommetto che se me lo tocco, poi, quando mi piace tanto tanto, riesco a fermarmi. Scommetto che nessuno ci riesce a fare questo. Scommetto che se ho sete resisto senza bere. Scommetto che se ho mal di pancia non lo dico a nessuno. Scommetto che gli altri non sono così bravi.
(Da “Lo scommettitore”, Fernandel, 2006).

Credo di aver premuto talmente tanto i tasti del telecomando da aver rischiato di romperlo. Di sicuro mi sono fatto male alle dita, e alla mano tutta. Da due ore ero davanti alla televisione. Due di notte. Carla mi aveva dato il bacio della buonanotte verso le undici, le bambine un’ora prima.
(Da “Dicono di Clelia”, Mursia, 2006, Milano).

 

Sa di antico il mio piccolo bar: è sotto i vecchi portici, nel cuore di questo paese, proprio vicino alla grande piazza dove si svolgono i comizi, si va al mercato oppure in Municipio, dove gli operai salgono sull’autobus che li porta nella zona industriale e dove la domenica la gente prima va a sentir messa nella maestosa chiesa di Santa Flavia e poi va a comperare i dolci della pasticceria Delrosso. Qui agli inizi del 900 c’era la bottega di un falegname.
(Da “Il quaderno delle voci rubate”, La Sesia, 2002).

 

 

 

Vecchia intervista

E’ il 2008. Dirigo il giornale La Sesia, ho appena pubblicato Lo scommettitore (Fernandel) e La donna che parlava con i morti (Newton Compton).
Mi propongono un’intervista.
Eccola la vecchia intervista del 2008.

Cosa risponderei oggi?

E comunque. Cè mia madre nella vecchia intervista.

Poi. Sul mio profilo facebook ho scritto questo, ho scritto:
Sono stato tante volte Ventura, tante volte “Italia eliminata dalla Svezia”, tante battaglie perse, insomma. Eppure ho lottato sempre per vincere. e qualche volta ho pure vinto. Ma sono imperfetto, a volte forte ma troppo spesso fragile, non me ne vanto, ma è così. E qui mi fermo, ma non mi piacciono i cori.

Il vucumprà

C’è un vucumprà nella mia città, uno di quelli che vive qui da anni. Va sempre in alcuni posti ben precisi. Se ne sta in disparte, aspettando che qualcuno gli comperi un accendino, dei fazzolettini di carta. Non si avvicina mai alle persone, non chiede, non cerca di incrociare altri sguardi. Sembra chiedere scusa, il suo sguardo che guarda il vuoto, nascosto dagli occhiali.

La mia amica Alessandra

 

Estate del 2003, la calda estate del 2003. Avevo scritto un libro, pubblicato dal giornale in cui lavoravo, quindi non valeva. Ne avevo scritto un secondo. “Dicono di Clelia”. Spedii a una quindicina di editori.
Volevo uscire da Vercelli.
In quell’anno cominciai a perdere le ore sui blog, su quello di Giulio Mozzi in particolare. Ma non solo. Quell’estate lessi un paio di libri di una scrittrice lanciata da Tondelli che pubblicava per Fernandel. Le scrissi, mi rispose, cominciammo a scambiarci più mail. Un giorno le chiesi se voleva leggere “Dicono dio Clelia”, e lei mi rispose: Certo ma sarò spietata. Mi fece l’editing. Non solo. Propose lei stessa il mio libro ad alcuni editor, scrittori, editori. A settembre del 2003 mi scrive Mursia: sono interessati a “Dicono di Clelia”. Avviso Alessandra. Era felicissima. Non dimenticherò mai la sua generosità.

Se su Il Fatto quotdiano curo la rubrica “4 mezze cartelle” il merito è tutto suo, di Alessandra Buschi.
Che oggi scrive poesie e fa la libraia.

Questo è l’incipit di un suo libro. “Se Fossi Vera”. Fernandel.
Mi sarei dovuta chiamare Vera. Se mi fossi chiamata Vera, allora forse sarei stata mora, avrei portato gli occhiali, avrei avuto la pelle chiara. Avrei avuto una bella risata di gola, di quelle contagiose, e quando avrei chiamato al telefono mi avrebbero subito riconosciuto perché avrei avuto una voce inconfondibile, dal tono basso, un po’ nasale, ma molto molto sensuale.

Fu importante l’editing che mi fece Alessandra, certo che lo fu. Ma sentirmi stimato da una scrittrice mi rese più sicuro. Più sicuro nella scrittura, intendo. Prima ancora che Mursia pubblicasse “Dicono di Clelia” mi misi a scrivere uno dei miei libri migliori, “Lo scommettitore”.

Inizia così

Vegan. Le città di Dio”, allora
La vera protagonista è Anna Antichi, la commessa di libreria anarchica che, ne “La donna che parlava con i morti“, diventa un’investigatrice. Vegan, le città di dio non è tanto un attacco al pensiero comune che si affida alla medicina ufficiale: è un invito a riflettere. Ma è anche e soprattutto un giallo.

Vegan. Le città di Dio inizia così:

La pioggia e il vento che fanno sbattere le finestre l’hanno svegliata. Sono le tre passate da quattro minuti. Luca si sarà addormentato davanti al computer. Deve svegliarlo, avrà la schiena a pezzi. Lo chiama. Niente.

Il computer è acceso, ma Luca non c’è. E non è in bagno, non è in cucina, né sul balcone a fumare una sigaretta di nascosto (ogni tanto lo fa, come se lei fosse fessa). Purtroppo non può essere nemmeno fuori con Fosca, pensa Andreina, ma è un pensiero da gettare via altrimenti piange, perché Fosca è stata soppressa; inutile quindi andare in balcone a controllare se c’è il guinzaglio. C’è. Quando va a stendere la biancheria non ha il coraggio di guardarlo. Rimarrà lì, crocefisso sul muro. “Il guinzaglio dell’unico cane della mia vita”.

E comunque. Non è da Luca uscire a quest’ora, senza un biglietto. Per essere uscito è uscito: mancano i jeans e le scarpe nere di cuoio, che alterna con quelle da ginnastica. Ha preso l’ombrello verde; diluvia, adesso. Prima pioggia di settembre.

Non sa che fare Andreina. Da tre, quattro mesi, Luca non è più Luca. Si è messo a rincorrere il fantasma del padre, che fino a qualche mese prima era un ricordo da due soldi.

Un giorno mio padre mi disse che la voce di dio si sente solo quando la notte è fonda: è l’acqua del fiume che scorre.

Una scrollata di spalle, una smorfia come a dire: che cazzo di padre mi è capitato; e poi parlava d’altro. Ora invece è un padre-chiodo-fisso.

[…]

Ha pochi ricordi, lei, del suo defunto suocero. Era una ragazzina quando lo trovarono morto per un infarto, incagliato come una vecchia nave tra le pietre del ume. Faceva caldo, forse voleva rinfrescarsi. O lavarsi, chissà.

L’è mort ‘l fol… È morto il pazzo del fiume… È morto il guaritore… Sono passati dodici anni, e dodici anni non è un’eternità: eppure la città non parla o parla poco di lui. È un ricordo tossico nocivo. Da incenerire.

Adriano Bronzelli era andato a vivere al fiume. Affari suoi e tanta comprensione per la signora Noemi, persona squisita, e per il piccolo Luca, scolaretto alle elementari: «Perché tuo papà non viene mai a prenderti?».

L’è gnì fol, dissero di lui e della sua fuga. Ben presto si sparse la voce che dava indicazioni su come curarsi da tutte le malattie. Tutte o quasi. La città avvolse quel piccolo peccato tra le sue nebbie generose; in fondo, di gente a cui si fulmina il cervello ce n’è sempre di più, uno più uno meno.

Quanti clienti, quanti malati andarono dal fol? Saperlo.

E comunque. Al fol fu permesso di partecipare a dibattiti, tavole rotonde, convegni medici nell’Aula Magna dell’ospedale. Sembrava quasi che, da un regista occulto, arrivassero precise direttive sul comportamento da tenere con lui. Non cacciarlo, anzi, dar da mangiare ai barboni e ai fol come lui durante i coffee break, concedergli perché no, “sia gentile… non più di cinque minuti”, la facoltà di parola. Ma controllarlo, anche. Con attenzione.

[…]

Durante un convegno sul cancro alla mammella, proprio un giovane collaboratore di “Nel segno”, uno di quelli pagati pochi euro al pezzo, nel resoconto scrisse alcune righe che sfuggirono alla censura del direttore.

Poche le domande del poco pubblico presente. Solo un signore di mezza età, trasandato, ha chiesto: «Ma perché nessuno parla dei grandi risultati che furono ottenuti negli anni Cinquanta dal dottor Ettore Guidetti, dell’università di Torino, che con altri medici, in tutto il mondo, sostennero e sostengono che alcune sostanze contenute nei semi di albicocca sono un chemioterapico naturale? Perché nessuno parla della Fondazione Pantellini e dell’ascorbato di potassio che è stato somministrato ai bambini dopo la catastrofe di Chernobyl? Perché nessuno dice che una corretta alimentazione, senza carni rosse, cibi lavorati e latticini, rappresenta la vera strada per prevenire e, spesso, per curare il cancro?» Domande, queste, a cui nessun relatore ha dato risposta.

Pur relegato all’interno del giornale, in taglio basso, l’articolo non sfuggì all’ira di medici e farmacisti.

«Quando si dà spazio a qualcuno, si deve veri care che sia una voce autorevole. Tu invece hai fatto parlare un emerito coglione», sentenziò il direttore, dando il benservito al suo inesperto cronista. Cacciandolo, e facendo sapere che lo aveva cacciato, ipotecava futuri introiti pubblicitari per convegni organizzati dall’ordine dei medici.

La voce di Adriano Bronzelli, insomma, andava tappata.

Sette mesi prima di morire – mica stupido ‘l fol aprì un blog: La voce di dio.

Sembrò strano, perché no ad allora aveva ri utato il computer. «Né computer, né telefonino, né macchina: si vive meglio senza», aveva sempre detto. Chiaro: qualcuno gli aveva spiegato l’importanza della rete. Firmandosi “vegAn”, nel primo post scrisse:

Internet non deve sottrarre il tempo che possiamo vivere all’aria aperta. Ma la rete è libertà, è anarchia, è un campo di battaglia di una guerra senza fine. Le banche e le multinazionali, insomma i padroni del mondo controllano la rete con lo scopo di confondere, annebbiare le menti. La loro voce è potentissima.
La nostra piccola voce è la voce della verità, della libertà. Dobbiamo combattere, senza paura, su internet e sulle strade. Qualcuno ci ascolterà.

Ad ascoltarlo, tra boschi e sabbie umide, melmose, vicino alla capanna, andava sempre qualcuno, adepto, malato o curioso che fosse. Proprio lì, una domenica, davanti a una trentina di persone, compresi due infiltrati, un brigadiere e un ispettore di polizia, Bronzelli disse queste precise parole: «Non andate a curarvi negli ospedali, state alla larga dalle medicine, perché sono veleni, e dai bisturi, che diffondono le cellule malate. E imparate a curarvi da soli con la respirazione, il silenzio, e poi con il cibo sano, le erbe, lunghe camminate dove l’aria è meno corrotta. Mangiate solo frutta, verdura, legumi, e dite addio al latte industriale, alla carne e allo zucchero ra nato, e se potete fuggite dalle vostre case, e portate i vostri gli dove non ci sono fumi, pesticidi, cibi in scatola, conservanti, veleni…»

Nella relazione dell’ispettore di polizia, risultava che Bronzelli avesse detto: «Il progresso ci sta uccidendo, fermiamolo a tutti i costi».

 

 

Novembre, che non ho dimenticato

Gémmea l’aria, il sole così chiaro
Che tu ricerchi gli albicocchi in fiore,
e del prunalbo l’odorino amaro
senti nel cuore.

Inverno del 1982 e del 1983. Sono sul treno, linea Torino-Milano. Sto tornando a Vercelli, mi attendono 8 ore di fabbrica. Mangerò un boccone, prenderò l’autobus, lavorarerò. Porterò con me Mirycae. Se avrò qualche minuto lo sfoglierò. A Torino, a Palazzo Nuovo, sto seguendo le lezioni di Stefano Jacomuzzi, su Pascoli appunto. E senza nemmeno accorgermene, Novembre l’ho imparata a memoria.

Ma secco è il pruno, e le stecchite piante
di nere trame segnano il sereno,
e vuoto il cielo, e cavo al piè sonante
sembra il terreno.

Silenzio, intorno: solo, alle ventate,
odi lontano da giardini ed orti,
di foglie un cader fragile. E’ l’estate,
fredda, dei morti.

La fabbrica ogni pomeriggio, cinque giorni siu sette. Facoltà di Lettere sei giorni su sette, prendendo il treno all’alba.
Studiare, ripassare quello che sentivo al mattino era diventata un’ossessione. Ogni momento era buono. Il treno. Il bagno. Cinque qualsiasi minuti.
Mi servirà questo allenamento, anni dopo, nello scrivere…
Non l’ho dimenticata, Novembre. La fredda estate dei morti, insomma.