Roma, via Nazionale, è quasi mezzanotte.
Sono in una gelateria seduto a un tavolino.
Son tutti occupati i tavolini.
Davanti a me ce ne sono due: nel primo ci sono con due uomini giovani, finlandesi. Li ha raggiunti un loro connazionale, che li sta bombardando, credo, di minchiate. A un certo punto tira fuori una scatola, la mostra ai due, e, non ci giurerei, ma dice loro Viagra.
Nell’altro tavolino c’è un uomo solo.
Avrà una decina d’anni più di me.
Ha un vestito ma non la cravatta, ha la barba bianca di una settimana, ha insomma un portamento dignitoso.
Ha ordinato un superalcolico e, ora, dopo averlo bevuto, sorseggia, lento, una birra chiara.
Porta il bicchiere molto lentamente alle labbra pare quasi non voler muovere la testa, la testa, la sua testa, si vede che è altrove: perché i suoi occhi stanno fissando, e da lì non se ne vogliono andare, un punto preciso, ma indefinito del niente.
Il suo profilo, io, ce l’ho proprio davanti, stagliato tra la strada, altri tavolini chiassosi e la notte.
Se passa un’ambulanza, o un auto che sgomma, lui no, resta fermo. La testa è immobile, solo la mano destra, lenta, porta il bicchiere alle labbra.
Riesce a chiedere il conto con un cenno della mano, poi. E quando il cameriere li dice quant’è lui evita di guardarlo.
Paga, si alza, ma non è né a Roma né in via Nazionale, quell’uomo di circa sessant’anni, giovanile, sguardo spento.
Mi alzo anche io: il vecchio finlandese sta ridendo, sguaiato. I due giovani finlandesi, invece, si lanciano sguardi complici, di sottecchi.
E buona pasqua.