Vivo a Roma quanto più posso ritirato; non esco che per poche ore soltanto sul far della sera, per fare un po’ di moto, e m’accompagno se mi capita, con qualche amico: Giustino Ferri o Ugo Fleres. Non vado che rarissimamente a teatro. Alle 10, ogni sera, sono a letto. Mi levo la mattina per tempo e lavoro abitualmente sino alle 12. Il dopo pranzo, di solito, mi rimetto a tavolino alle 2 e mezza, e sto fino alle 5 e mezza; ma, dopo le ore della mattina, non scrivo più, se non per qualche urgente necessità; piuttosto leggo o studio. La sera, dopo cena, sto un po’ a conversar con la mia famigliuola, leggo i titoli degli articoli, e a letto. Come si vede nella mia vita non c’è niente che meriti di essere rilevato: è tutta inferiore, nel mio lavoro e nei miei pensieri che… non sono lieti. Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità d’ingannare di continuo, noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il giuoco, non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Cosi è. La mia arte è piena di compassione amara per tutti quelli che s’ingannano; ma questa compassione non può non essere seguita dalla feroce irrisione del destino, che condanna l’uomo all’inganno
Luigi Pirandello, 15 ottobre, 1924
(Quando scrisse questa lettera, Pirandello aveva 57 anni, essendo nato nel 1867. Dieci anni dopo riceve il Nobel per la letteratura. Muore nel 1936: chiedendo di essere avvolto in un lenzuolo bianco e di non essere ricordato nei giornali).