Ho in mente di scrivere una storia. Ho in testa qualcosa, non so dire se tanto o poco, ma è un qualcosa di “concreto”.
E’ una brutta storia, di denuncia. Sento anche che debbo scriverla, presto. C’è un problema: non ci riesco.
Quello che io vedo, le ombre di personaggi che si muovono, faccio fatica a de-scriverlo: non per altro: è tutto avvolto da.
C’è dell’altro: la voce della narrazione. Non va bene la prima, non va bene la seconda, non va bene la terza persona.
Non va bene una “voce”, insomma: perché in questa storia le voci son vagiti che non vogliono raccontare la loro sconfitta.
E come avrete capito sono comunque geloso di questa storia.
In realtà un tentivo di scrittura l’ho fatto. Che per ora è solo un racconto, da sviluppare (la tematica è sociale, dicevo, l’unica persona che lo ha letto è stato Marco Travaglio, a cui lo mandai mi pare un anno fa, ma solo affinché leggesse), da sviluppare, dicevo, o forse no.
(L’averlo inviato in lettura a Travaglio ha un suo perché. Travaglio non legge narrativa. Lui legge e ragiona come un giornalista e quindi, davanti a tutto, pone il problema della credibilità).
Mi sembrava buono quel racconto, forte, originale: l’idea, però, solo l’idea. Rileggendolo, insomma, non mi convinceva. E così ho deciso di lasciar perdere, di dichiararmi sconfitto, e anche, ho deciso di non farlo leggere a nessuno.
So che non va, punto. Non va perché la scrittura è fatta di parole, e quel che voglio raccontare io è fatto di buio, di silenzi, di vagiti.
Insomma: si presterebbe a essere un’opera teatrale, un dramma.
Solo che io di opere teatrali ne ho lette tante, certo, e ho provato anche a scriverne, una vita fa, ma con esisiti disastrosi.
E quindi non so.
Capisco anche di aver detto tutto e niente. Niente, in particolare.
(Qualcuno si domanderà: Ma Travaglio cosa ti disse di quel tuo racconto che non ti convinceva? Allora, mi fece dei complimenti, sommari, ma io sospetto che lo abbia solo sfogliato, aveva in mente il suo nuovo giornale. Quindi).