lettere al giornale

Vita di giornale (piccolo, 11, 12 mila copie di tiratura, combattivo, nato nel lontano 1871, il mio lavoro insomma).

Le lettere (o le mail) che arrivano con i “fà lo stesso” oppure con gli  “ò visto” sono il meno: si correggono e via.
L’errore più comune è comunque il c’era o c’ero o c’eravamo senza apostrofo.
Le lettere peggiori son quelle di chi pensa di saper scrivere bene e invece non sa scrivere e usa termini (che gli sembrano a effetto) impropri (che spesso fan ridere): quando il giornale esce e rilegge la propria lettera modificata solitamente telefona e dice, Non avete capito, perché mi avete storpiato la lettera?
E comunque. Ho iniziato a fare il giornalista nel 1986.
La gente, allora, scriveva a mano con la macchina da scrivere. Oggi il pc ha sostituito la macchina da scrivere ma, rispetto al 1986, ho una sensazione (ripeto: sensazione): c’è più ignoranza.
Aumentano quelli che vengono in redazione e ci chiedono di scrivere noi una lettera per loro, sotto dettatura ma con licenza di scrivere correttamente: ché loro non lo sanno fare. Però vedono la televisione: dicono che se il problema lamentato dalla lettera non verrà risolto loro non ci penseranno due volte a chiamare il Gabibbo che tutto risolve.
Non mi occupo direttamente di queste cose: me le riferisce la segretaria, o il giornalista che, a volte, si presta a scrivere (ché magari la lettera è una lettera denuncia, o di malasanità, o contro l’arroganza della burocrazia) e, durante la mia giornata lavorativa, ho altro a cui pensare.
Ma quando, di notte, vado un po’ a spasso per la rete e leggo certe discussioni mi chiedo se gli intellettuali, specie quelli di sinistra, le sanno queste cose.
Insomma, per me c’è più ignoranza e disattenzione, su tutto.

Poi – ma queste ci son sempre state – ci sono le lettere impubblicabili per il contenuto.
La giovane ragazza madre incazzata, per esempio, che scrive: Ho due figli e mi prostituisco per farli mangiare. Mi chiamo così e così, questo è il mio numero telefonico, disposta a far di tutto (ma non a tutelare la privacy dei propri figli in età scolare).
O quella del vecchietto di quasi cent’anni che ogni tanto mi scrive a proposito di stupri: tutta colpa, dice lui, di come si vestono oggi le donne.

Eppoi c’è il capitolo delle lettere anonime: l’ignoranza, qui, non c’entra.
C’entra la stupidità: tanta gente non si ricorda che deve morire e spreca il suo tempo, così, a vomitare sul prossimo.
(Comunque. Ogni tanto, ma è raro, l’anonimo scrive per segnalare un abuso ma non può esporsi perché teme ritorsioni. Un anonimo su venti, diciamo, non è un tarato mentale e ci chiede aiuto, se possiamo).

E lì il morto, assai discreto, è rimasto senza fiato

DE PROFUNDIS
di
vladimir vysotsky
(sotto, la versione originale cantata da vysotsky e quella cantata da giorgio conte)

C’è uno scontro tra due macchine al di là della Moscova
E si son conciati tutti, anche quello che guidava
Eran tre con dietro un quarto, che però era già morto
E difatti nella bara lui non si è nemmeno accorto
Nel corteo si procedeva tutti quanti alla rinfusa
Quasi fossero cateti in cerca dell’ipotenusa
Il diacono sfiatava su ogni mezzo do di petto
Il defunto, solo lui, nel suo ruolo era perfetto

Perché senza entrare nel merito, è soltanto questione di spirito

Le piagnone nei singhiozzi eran scarse d’energia
L’oratore ad ogni frase dava sfoggio d’amnesia
Lo baciava sulla fronte, poi sputava disgustato
E lì il morto, assai discreto, è rimasto senza fiato
Ecco il cielo si indispone e scoppiettano due tuoni
Ma si sa che la natura se ne frega dei sermoni
Tutti quanti a scantonare per cercare almeno un tetto
E soltanto il caro estinto non si è messo a far fagotto

Perché, senza entrare nel merito
È soltanto questione di spirito

Che gli importa del diluvio, non è poi questo svantaggio
Nei viventi, a dire il vero, c’è carenza di coraggio
I defunti, gli ex-umani, hanno stabile fermezza
Mica fatti come noi
Sono proprio un’altra razza
Poi in quanto a sangue freddo non si fanno compatire
Non li vedi mai scomporsi, mai avranno da ridire
Sanno star nel loro ambiente, quieti quieti fino in fondo
Non si sente anima viva, proprio cose d’altro mondo

Perché, senza entrare nel merito
È soltanto questione di spirito

Là nel regno delle ombre non si sente una parola
E di notte una signora ci può andare anche da sola
Che non corre nessun rischio, né pericoli di sorta
Qui nessuno la importuna o le fa la mano morta
E va beh che prima o poi dovremo andarci tutti quanti
Ma se c’è chi ha molta fretta che mi passi pure avanti
Sembra proprio che a schiantare qui si faccia tutti a gara
Con la debita eccezione di chi sta dentro a una bara

Perché, senza entrare nel merito
È soltanto questione di spirito …

che hai fatto piccola Eda?

Mi son ricordato di lei quando ho visto la sua foto. Mi son ricordato d’aver incrociato il suo sorriso in una strada del centro che percorro ogni mattina per andare in redazione.
Si è uccisa, impiccandosi, una settimana fa.
Come mai s’ammazzina una ragazza albanese, che andava bene al liceo, che era carina, che era attaccata alla famiglia, che era ben voluta, ma per davvero, dalle compagne di classe?
La città, in questi casi e come sempre, mormora.
Forse voleva tornare in Albania forse aveva paura di tornarci.
Forse si è uccisa perché pensava di aver deluso qualcuno.
(La famiglia, di sicuro, si stava interrogando su che fare: il padre, veterinario in Albania, e che qui a Vercelli aveva trovato lavoro come operaio, avendo perso il posto aveva pensato di tornare, e così aveva fatto, lui solo in Albania.
L’Italia non era la terra promessa che lui immaginava).
Prima di uccidersi, comunque, si è truccata e si è ben vestita. E poi, prima di salire sul letto del padre e della madre per dare addio alla vita, si è tolta le scarpe, ché non si sporcano coperte e lenzuola.

(Aveva sedici anni, ne stava per compiere diciassette, era già donna; ma io ho fatto questo titolo sul mio giornale, una settimana fa: Che hai fatto piccolo Eda?).

Annuncio

Gioco, senza trucchi, premi, o altro.
Cerco cinque persone, solo cinque (saranno le prime cinque), che mi dicano un numero, da 1 a 85*.
Sono pagine di un mio manoscritto, Di bestemmie e folli amori.
Poi, sempre queste persone, mi indichino, insieme alla pagina, quale blocco da incollare, qui, sul blog: le prime quindici righe; le quindici righe che stanno in mezzo; o le quindici righe finali della pagina.
Esempio: pagina 10, secondo blocco…
Pubblicherò insomma cinque passi del libro, di quindici righe, scelte a caso.
Un libro che è ancora tutto da rivedere.

* Il manoscritto è di 94 pagine; preferirei non svelare il finale. Il manoscritto ripropone cose già raccontate in questo blog. In particolare si rifà a Il quaderno di mia madre.
Il quaderno di mia madre è tra i ricordi: il post va cercato qui, tra le altre cose scritte da me e che riguardano la mia vita.

Allora, grazie a Lucia, Elena, Ilaria, Aitan, ed E.L.E.N.A.

Incipit.

Torino, luglio.
La tazza è quella della sua infanzia, era quella del latte, dei biscotti e di «sbrigati Tiziano, sei sempre l’ultimo, guarda che chiudon la scuola».
Sta sorseggiando il suo caffè forte e amaro, è in piedi, dopo che avrà finito di bere, porterà la tazza in cucina, la laverà e la asciugherà con cura, quindi si metterà a rincorrere i ricordi, scrivendo fino all’alba. Anche se non è mancino, la tazza è sorretta con la sinistra; la destra, però, è sotto, per precauzione, metti che caschi. Non è un gesto di sempre: è di stasera. Stasera, per la prima volta ha pensato che quella tazza lo ha seguito, sempre.
Fa caldo stanotte, a Torino. Sono le dieci e venti minuti e, ogni tanto, arriva qualche brezza di vento. Si è appena lavato la testa, lui. Un rito: se non ha i capelli lavati non riesce a scrivere, né per altri né tantomeno per sé. Ha tutto quel che gli serve, qui sul terrazzino. Il computer portatile, due sigari toscani accuratamente tagliati in quattro mezzi, ma spera di non fumarli tutti, Giada, la gatta che gli si sta strofinando tra le gambe, la fotografia che suo padre ha scattato alla mamma, di nascosto, al risveglio, mentre spalanca la finestra della camera da letto.

pagina 43

era fantastica. Si scopava alla grande, solo Magda era più brava di lei, poi parlavamo di cibi, libri, dei suoi viaggi all’estero, era innamorata dell’Argentina e di alcuni paesi arabi come la Giordania, poi aveva una fissa particolare, per la Vandea, regione francese non proprio nota dal punto di vista turistico, e mi piaceva ascoltarla perché, a differenza delle persone che ti spiegano quello che già si sa dalle guide delle agenzie o da internet, lei mi raccontava aneddoti e storie di persone incontrate, e io, dopo averla ascoltata, a mia volta le raccontavo storie toscane di bestemmie e folli amori.
Un giorno la incontro all’Ikea di Torino-Collegno. Fu lei a fermarmi, io avrei fatto finta di niente, non potevo sapere se con lei ci fosse il marito, la mamma, altri parenti, oppure il figlio di sedici anni.
Il figlio c’era, lei lo chiamò, era una decina di metri davanti a noi, ci presentò, disinvolta. Lo guardai negli occhi e anche lui mi guardò e il suo sguardo pose fine alla mia storia con quella donna.
Mi feci l’idea che lui avesse capito. Non percepii dell’odio, ma tristezza. Mi strinse la mano con un sorriso triste, come a volermi dire «so tutto, ho capito, voi scopate alla grande».
Io, in pochi secondi ripensai a me, a come guardavo la Gina, ai miei fantasmi, poi

pagina 30

Non si è addormentato bene, Tiziano. Ha sognato il padre di Battista, un gran maiale. Beveva e andava e donne e, tornato a casa, picchiava la moglie e umiliava il suo più caro amico e le due sorelline più piccole. Vomitava volgarità che, solo una volta, piangendo, e a testa bassa, Battista aveva raccontato a Tiziano. Irripetibili. Da non raccontare né da scrivere, mai, a nessuno e per nessuno.

Torino, luglio.
Stasera c’è un’afa insopportabile e pure qualche zanzara fastidiosa. La luce del computer le richiama, maledette. Domani compro dei gerani, così vedo se le tengono lontane, anche dell’autan, pensa. Aveva un gelsomino, ma l’ha fatto morire, forse il gatto ci faceva la pipì, chissà. Sono le due, ha lavorato su un manoscritto, fino ad adesso. Vado a farmi un caffè, prendo un’altra birra, poi continuo a scrivere fino le cinque, per me, pensa.
È stata una giornata vuota, quella trascorsa. L’appuntamento in agenzia, una telefonata al babbo, «la mamma? Come sta la mamma?», una pennichella pomeridiana troppo lunga, la spesa al vicino supermercato, una cena da poco, spaghetti al pomodoro, un po’ di stracchino e del radicchio rosso, ascoltando, distrattamente la radio. Nessuna voglia di uscire con Giovanni, che oggi lo ha inondato di mail. La prima diceva:

pagina 66

Mentre contava e ricontava, seduto sull’abitacolo della Fiat 500, sentì qualcuno o qualcosa che picchiettava sulla macchina. Pensò a un bimbo, a un cane, ebbe il tempo di ipotizzare che forse c’era un dannato cane da caccia, a Cortona ce n’era tanti, segugi da cinghiale soprattutto, che magari stava rigando la carrozzeria del vicino di casa. E invece, all’improvviso, si materializzò la figura della mamma.
«Era nascosta, accovacciata, quando si è alzata era chiaro che voleva fare una sorpresa, ma non era da lei, Stefania non faceva di queste cose, poi vedi Tiziano, l’espressione di tua madre… è l’espressione di tua madre che mi fa pensare… male. Quando è comparsa era allegra, ma quando m’ha visto c’è come rimasta male, io l’ho vista cambiare, m’è parsa delusa di vedere me», ha detto.
«Magari voleva scherzare…», ho detto (balbettando un po’, ed è strano, non ho quasi mai balbettato in casa).
«Ma non con me, ripeto, e tu lo sai, non erano cose che la tu mamma faceva».
Un figlio, in questi casi dice, avrebbe dovuto dire “ma no babbo, che vai a pensare, la mamma ti ha riconosciuto, ne son  sicuro”.
E invece, io, che non sono normale, mi sono ricordato che sul finanziere, a Cortona, si diceva che avesse molte donne, specie maritate, e poi, ho pensato che la mamma mai e poi mai avrebbe fatto cucù a mio padre, sicché ho detto  «capisco».
Ho fatto male, lo so: perché mio padre si è girato e, scuro in volto, mi ha fissato. Voleva che io lo aiutassi a credere il contrario, e invece io, ora, gli stavo dicendo che sì, le sue supposizioni le condividevo, magari non c’era

pagina 77

Consentimi di poterti dire una cosa, cara Cristina, una sola e poi gettala via questa lettera: sei la persona più bella che ho incontrato in vita mia.
A te non farà piacere ma voglio che tu sappia che nella mia stanza a Cortona, oltre a quella della mamma, c’è posto solo per una foto ricordo di una donna.
Un abbraccio, fammi sognare solo un abbraccio. Sei comunque una delle più belle pagine della mia vita, e questo pensiero, almeno un po’, mi fa bene.

Tiziano

PS. Ricordi, cara Cristina, che al telefono oppure in pubblico, a volte balbettavo? Balbettavo e balbetto pure con le donne. Il fatto che io con te non abbia mai balbettato ha un significato preciso: che le cose più belle della vita si perdono con troppa sbadataggine e stupidità…

Stava per scrivere altro, ma si è fermato. Non ha nessun diritto di andare oltre, né di sperare. Il computer di Tiziano è ancora acceso, adesso, e lui lo sta guardando: indeciso se continuare Di bestemmie e folli amori.Manca solo il finale, forse.
Ha bisogno di pensarci, Tiziano, prima di iniziare a scrivere. Deve vedere inoltre, ma la cosa non lo preoccupa, come andrà il lavoro per il suo capo, a distanza. Niente più convocazioni, per discutere di un manoscritto, solo telefonate e mail.

due incipit e una quarta

Incipit di due, tra i libri comperati, e quindi ancora da leggere, al salone del libro, Torino.

E’ l’ora peggiore. Venanzio si tiene a distanza dal chiarore sfuocato dei lampioni immersi nella nebbia. E’ la seconda volta, stanotte, che è costretto a cambiare giaciglio. Due africani giovani e stronzi non hanno avuto bisogno di tirar fuori il coltello per convincerlo a sloggiare. E quando ha pensato di aver svoltato la nottata accanto alle griglie di aerazione della trattoria San Michele, una banda di adolescenti lo ha preso di mira. Più ubriachi di lui e più cattivi delle maschere da mostri che indossavano. La paura lo ha spinto a raccogliere in fretta il suo fagotto e a correre via, inseguito dal lancio di bottiglie e sassi.
E’ l’ora peggiore.
Fiume Pagano, di Laura Costantini e Loredana Falcone, Historica.

Pioggia, temperatura che si assottiglia, odore gravido di inizio estate, frutta in esubero di zuccheri, clorofilla che spinge, vento incerto ai bivi delle strade, ombrelli si schiudono come meduse, l’acqua cade senza farsi male, al terzo piano del palazzo di fronte, la scuola di ballo latino americano, dove si contorcono uomini pelosi con camicie sbottonate fino all’ombelico e ragazze coi fianchi dismetrici e gonne a mezza ruota, sul marciapiede una donna cambia una lampadina all’insegna della lavanderia, capelli strinati, le calze di nylon sulle caviglie, la scuola elementare chiusa, due vetri rotti al primo piano, sassi o altro, l’anziano bidello che ci passa davanti ogni giorno per ricordare i ricordi, un cane a macchie attraversa di corsa, frenate, autobus semivuoti e assonnati, con l’autunno arriveranno nebbie di lattosio, spore di funghi nei boschi, auto ribaltate nei fossi e chissà se l’inverno sarà freddo, orme di uccelli sulla neve, film da dormire sulle poltrone, risacche di catarro, tosse che tiene sveglia la notte.

Chiudo la finestra, il temporale si scioglie sui vetri, sistemo le carte sparse sulla scrivania, più che altro le metto caoticamente in pila, spengo il computer mentre telefono a Chiara.
Italian Sharia, di Paolo Grugni, Peridisapop*.


Di questo libro, invece, preferisco copiare la quarta di copertina.

Nella primavera del 1969 l’ennesima azione terroristica all’Università di Padova fa partire una nuova indagine.  A coordinarla è un commissario di polizia, Pasquale Juliano, il capo della squadra mobile, che arriva a individuare un nucleo di estremisti che traffica in armi ed esplosivi. Ma i neofascisti gli preparano una trappola: Juliano si vedrà così scippare l’inchiesta, che verrà insabbiata, e finirà sotto processo accusato di aver costruito le prove contro i terroristi.
Gli occorreranno dieci anni per dimostrare la sua innocenza, ma nel 1979, quando sarà assolto da tutti i capi di imputazione, la stagione delle bombe avrà quasi concluso il suo tragico corso.
Attentato imminente, (Piazza Fontana, una strage che si poteva evitare), di Antonella Beccaria e Simona Mammano, Stampa Alternativa.

scrittori felici al salone?

Trascorsi due giorni alla Fiera o Salone (per me è Salone, quindi da ora in poi Salone sarà) al Salone del Libro, Torino.
Ci passai due giorni perché tra me e me dissi: Ci son due libri, miei, al Salone, ed è una coincidenza che non credo si ripeterà mai. Avevo infatti pubblicato Dicono di Clelia (Mursia) e Lo scommettitore (Fernandel).
(C’ero stato una volta sola, prima, al Salone, anni prima, un venerdì sera. E di quel venerdì sera m’è rimasto impresso un ricordo triste: l’immagine di un paio di scrittori, che avevano pubblicato a pagamento, intenti a fermar la gente per cercare di vendere una copia del loro libro. Quell’immagine, col passare del tempo, un po’ è mutata e un po’ no: continuo a vedere tanti scrittori che cercano di vendere qualcosa, magari a un editore, a un critico, a uno scrittore affermato, a un editor).
Torno al 2006.
Praticamente, staziono davanti allo stand di Fernandel; e in due giorni vedo una ventina di persone che comprano il mio libro, alcune, cinque o sei, per la verità lo comprano perché mi conoscono, insomma la mia presenza è del tutto simile all’inavadenza (invadenza?) di chi cerca acquirenti per il proprio libro.
E mi rendo conto dell’importanza di una buona copertina.
Il mio libro è insieme ad altre duecento, trecento. Son lì, come soldatini, uno vicino all’altro. Davanti a loro passa un esercito di visitatori, che dà un’occhiata, spesso distratta; e a volte l’occhiata da distratta diventa interessata: per certe copertine oppure per certi autori noti (nello stand di Fernandel il più ricercato era Morozzi).
Ma non passo certo tutto il tempo davanti al mio Scommettitore.
Mi piace una scena, divertente, davanti ai bagni. Far pipì o altro per i maschi non è difficile, facciamo in fretta, noi. Nei bagni delle donne, invece, c’è una calca super, con tanto di coda e di femmine di tutte le età che scalpitano.
Vedo questo vedo. A un tratto una donna, carina, sui quarant’anni, si stacca dalla fila, ne ha tante davanti a lei, e, sbattendosese, entra nel bagno dei maschi, inseguita da qualche sorrisetto, claro.
Davanti allo stand di Fernandel vedo una ragazza di Torino, che conosco; appena intercetta il mio sguardo mi raggiunge e mi dice, Mi spiace Remo, vorrei tanto comprarlo il tuo Scommettitore ma 14 euro non li ho.
Lo so che non li ha, ha perso il posto; e il biglietto del Salone gliel’ha pagato un suo amico, che è lì con lei.
QUestao invece è successo la domenica mattina. Dopo un caffè e una pausa sigaro, rientro, e torno al bar. Stavolta faccio io la coda per un panino e una birra. Poco distante da me del tutto casualmente inciampo in un incontro: tra un uomo anziano, avrà più di settant’anni, e una signora, anche lei sui settanta, che lavora per una casa editrice. Stanno discutendo del manoscritto che lui ha proposto e che lei )o qualcuno della casa editrice non so) ha bocciato. Capto solo che si tratta di un saggio.
Allora: spesso chi vede respinta una sua cosa poi diventa noioso, coi soliti discorsi: pubblicano soli i accomandati, non hanno capito la mia proposta, si pentiranno d’aver rifiutato il mio manoscritto (i più incazzosi dicono, Cazzo, e pensare che mi avevano fatto il filo quelli di Mondadori).
Stavolta no, è il contrario. Lui suda e tace. Sembra stordito, sembra (sensazione che ben conosco) aver appena ricevuto una mazzata in testa. Da quello che intuisco la riposta negativa ha avuto luogo proprio al Salone, davanti ai miei occhi. Lui tace, dicevo, ma lei, lei no: e gli spiega la filosofia della casa editrice, e gli spiega cosa non va in tanti manoscritti, e gli spiega, mentre lui, sensazione tutta mia, non vede l’ora di andar fuori a respirare una boccata d’aria. Macché: lei, sadica, persevera.
La scena più triste però la vedo allo stand di una casa editrce con cui sono in buoni rapporti.
Insomma, ci si conosce.
Mi omaggiano di un libro. Grazie, dico.
Mentre dico grazie si materializza, davanti a me, sorridente, un uomo. E’ l’autore del libro che m’hanno appena regalato. Sorride per poco: quando gli dicono che non l’ho comperato il suo libro, ma che l’ho ricevuto solo in omaggio, s’intristisce lui. E’ lì da tre giorni, poi mi dicono. Da tre giorni controlla se qualcuno compra il suo libro. Pensava, al terzo giorno, che finalmente era arrivato un acquirente.
E’ sconsolato quando sa che non lo sono.
Certo, lui zero, io venti, qualcuno cinque, qualcuno tremila, applausi e autografi.
Ma chi vende tremila vorrebbe venderne trentamila eccetera.
Qualcuno conosce scrittori felici? No, felici è troppo: sereni ecco.

l’avvelenato

Non ho gli strumenti per dire se le affermazioni contenute in questa intervista siano di un coraggioso oppure di un pazzo.
Né so se il libro di Massimiliano Parente, La casta dei radical chic, edito da Newton Compton (mia ex casa editrice), farà discutere o invece verrà sepolto dal silenzio.
Comunque, lo leggerò.
E, non lo nego, un giorno pure a me piacerebbe scrivere un libro contro cortigiani e puttane (in campo editoriale, ovvio, ché io di puttane vere ne ho conosciute quando ho fatto il portiere di notte, in un albergo, e di alcune di loro conservo un buon ricordo).
Ma mi piacerebbe scrivere anche di gente, faccio un solo, Luisito Bianchi, che scrive senza mai chinare il capo, pensando solo a scrivere.
E di persone serie, come Luigi Bernardi (con cui ho a che fare, ora), o come Giulio Mozzi che, a mio avviso, lavorano con serietà e passione (certo, saranno imperfetti pure loro; Mozzi ad esempio a volte fa incazzare, perché non risponde alla mail; è anche vero che è sommerso, credo, dalle mail).
E poi: mi sembra che ci siano realtà editoriali, come Marcos y marcos, come Elliot e altre, degne di attenzione.
In ne scriverei.
Ora come ora non saprei scrivere nulla sui critici: il mercato editoriale, oggi, straripa di titoli nuovi, ogni giorno, impossibile controllarlo, decifrarlo (non penso che D’Orrico legga i libri e autori Fernandel: autori Fernandel che, invece, vengono letti quando diventano Feltrinelli o Guanda).
Scriverei per esempio di case editrici microscopiche, ma serie…
E mi fermo, perché l’argomento è l’intervista di Antonio Prudenzano a Massimilano Parente su Affaritaliani.it.

la cultura piccolo borghese

Queste parole di Pasolini fecero discutere e, ogni tanto (non tanto tanto, per la verità) vengono rispolverate, non so con quanta convinzione. E comunque: io, il vecchio blog, che ora è scomparso, l’avevo iniziato proprio così.

Il tipo di persone che amo di gran lunga di più sono le persone che possibilmente non abbiano fatto neanche la quarta elementare, cioè le persone assolutamente semplici. Ma non ci metta della retorica in questa mia affermazione: non lo dico per retorica, lo dico perché la cultura piccolo-borghese è qualcosa che porta sempre della corruzione, delle impurezze, mentre un analfabeta, uno che ha fatto solo i primi anni delle elementari, ha sempre una certa grazia che poi va perduta attraverso la cultura. Poi la si ritrova ad un altissimo grado di cultura, ma la cultura media è sempre corruttrice.

Pasolini (intervistato da Enzo Biagi nel 1972)


ci son giorni che me lo vado ripetendo

Dalla mia pagina su facebook, le mie citazioni preferite. Mi dicesso, Salvane una. Salverei l’ultima. Ci son giorni che me la vado ripetendo: io sono un clown e faccio collezione di attimi, io sono un clown e faccio collezione di attimi, io sono un clown…
Poi, per chi non lo sapesse: Fatih Terim è stato un allenatore della Fiorentina.

Chi parla difficile è nemico del prossimo.
(don Lorenzo Milani)

Il primo uomo che ha detto che la donna è bella come un fiore è un genio, il secondo un cretino.

(però non ricordo di chi sia; la diceva spesso a lezione di Storia del teatro Gian Renzo Morteo)

Cosa ne facciamo della letteratura, a cosa ci può servire, se non a smontare le false sicurezze che abbiamo?

(Gianni Celati)

Urlino tutte le ingiustizie del mondo
(Ho Chi Mihn)

Chi è veramente intelligente nasconde di aver ragione

(Elias Canetti)

Non siamo gente che festeggia i compleanni, noi
(mio padre, classe 1927)

Ogni fiore si sente un po’ rosa
ogni fiume si sente un po’Po

(Ernesto Ragazzoni)

Avere paura non serve a non morire

(Fatih Terim)

Ci faccio una fatica nera. La più facile delle mie pagine esce spensierata da una decina di penosi rifacimenti.

(Fenoglio)

I quattro punti cardinali sono tre: nord e sud
(Vicente Huidobro)

Io penso che la vita è una molto triste buffoneria, poiché abbiamo in noi, senza poter sapere né come né perché né da chi, la necessità d’ingannare di continuo, noi stessi con la spontanea creazione di una realtà (una per ciascuno e non mai la stessa per tutti) la quale di tratto in tratto si scopre vana e illusoria. Chi ha capito il giuoco, non riesce più ad ingannarsi; ma chi non riesce più ad ingannarsi non può più prendere né gusto né piacere alla vita. Cosi è.
(Pirandello)

Io sono un clown, e faccio collezione di attimi
(Boll)