Primo libro che ho scritto, Il bar delle voci rubate.
Il protagonista, si chiama Luca Baldelli, è un sessantenne, ha riaperto il bar che era stato di suo nonno. Per passare il tempo, in un quaderno scrive le storie che sente dai suoi clienti – nei bar, per esperienza personale, la gente spesso si confida incurante di camerieri o proprietari – «perché il bar è come un cinema, qualcosa, da un momento all’altro, può capitare».
Insomma, Luca Baldelli scrive aspettando che arrivino storie.
Ultimo libro che ho scritto, La suora.
Il protagonista, Romolo Strozzi, vive isolato in Valsesia. È un pugliese, ma vive con la percezione di non avere radici. È innamorato di una suora, suor Beatrice. L’ha conosciuta quando ancora non era suora e si chiamava Nora. Vive nell’attesa: che lei lo raggiunga. Sa che non succederà, però di sera e di notte pensa a lei, ci parla, la sogna. E l’aspetta.
Poi c’è un libro non scritto e che non interesserebbe nessuno: la mia vita. Ho vissuto anche io nell’attesa. La scrittura, per me, è attesa. Una pagina scritta attende la successiva, iun libro terminato attende il prossimo.
L’attesa.
Mi spiego. Io – come tanti – odio le code. Se vado in posta a spedire qualcosa, metti un manoscritto, sono imbranatissimo. Confido sempre nella comprensione dell’impiegata di turno. Ecco, se mentre faccio la coda penso a qualcosa che sto scrivendo vivo meglio quei momenti. Stessa cosa, quando porto a spasso il cane, e magari piove, o fa freddo. Se invece non sto scrivendo nulla (come adesso) subentrano noia, preoccupazioni, depressioni più o meno grandi…