Ciao Lela

«Ti sto leggendo, sono proprio curiosa di sapere come va a finire…».
Le tre di notte, sto per andare a dormire. Le mie quattro ore di sonno. Su una delle mie pagine su facebook (ne ho creata una per ogni libro) leggo questo messaggio.
E penso, e mi chiedo: Lela come stai? Da quanto tempo…
Da quanto tempo che non ci scambiavamo saluti e commenti. C’era stima reciproca. Dal 2012 fino a…
Sono sulla sua pagina. Vedo la sua foto: il suo profilo, Lela guarda avanti.
Leggo alcuni commenti: Lela non c’è più. Da mesi, forse da maggio.

Passo un’ora a leggere i suoi post, anche vecchi, poi vado a dormire, con l’amaro in bocca.
La follia di facebook: arrivi a 5000 contatti, ma è da tempo che dici che sarebbe meglio averne 50, 100, non di più.
In quei 50, 100 lei, Lela, ci sarebbe stata…
(…ci saresti stata per la tua dolcezza, per le nostre affinità…)
Era più giovane di me, era una bella persona, credo sia morta per una crisi respiratoria, forse Covid.
E non mi ricordo e mi spiace non ricordare quand’è che abbiamo cominciato a sentirci.
Era meglio il mondo dei blog. Pochi contatti, sapevi.
Sulla sua pagina ho solo scritto: Manchi, ciao.

Il vangelo ribelle

Sabato (per motivi miei, personali) non potrò andare a Monastero Bormida a ritirare il premio Monti (con La suora, sono arrivato terzo).
Non potrò così conoscere Bruno Vallepiano, altro autore della scuderia Golem il cui libro (La donna con la pistola) è tra i premiati, non potrò salutare il mio amico Giorgio Bona, che è arrivato secondo (con Da qui all’eternit) e soprattutto non potrò conoscere il segretario/organizzatore del premio Roberto Chiodo.
Vorrei conoscerlo. Ecco cosa ha scritto (era agosto) sul suo profilo per presentare una delle tante iniziative che ruotano a Monastero Bormida.
Quello che ha scritto Chiodo, chiaro, lo sottoscrivo: una sorta di vangelo ribelle. Anche il protagonista de La suora la pensa così.

Io non ho l’abbonamento a sky e vado a vedere le partite al bar
Io non ho netflix e vado ancora al cinema
Io non faccio ricerche su wikipedia ma mi informo sui libri
Io leggo libri cartacei e non ebook
Io non ho il navigatore
Sul mio cellulare ho scaricato 4 app, strettamente necessarie
Non mi interessano i likes quando scrivo qualcosa
Non mi interessano i follower su instagram
Ci siamo riempiti di cose inutili e siamo schiavi del tempo, sempre ad inseguirlo questo tempo
e poi non guardiamo la realtà. La realtà di un quartiere dove tutto è chiuso. Chiusa la piscina comunale, chiuso l’Hotel, chiuse le terme, chiusa la discoteca, chiuso il bar e di quanto avremmo invece bisogno anziché di chiuderci in casa a coltivare l’effimero, di riaprire i locali dismessi, di riappropriarci dei nostri spazi, ovvero i luoghi dove ci si conosce per davvero, luoghi adatti per le varie forme di creatività.
Lo so che le stelle, nemmeno più le stelle, cadono il 10 agosto, ma stasera anziché guardare la tv o perdervi nelle vostre belinate di chat, lasciatevi catturare dalla curiosità di un evento in un castello medievale, lasciatevi alle spalle le negatività, la stanchezza e prendete la strada per Monastero Bormida, prendetela per davvero e non resterete delusi…..

Nostalgie, viaggi e…

Non provo nostalgia per i miei vent’anni. Provo nostalgia per altri momenti della mia vita, magari di ribellione, di ribellione al tram tram, alla noia, ma non è di me che voglio, scrivere, ora, parlando di nostalgia.
Mi manca una vecchia stazione, per esempio. L’hanno demolita, rifatta: quella di ora sembra una metropolitana. Mi manca, di notte, il silenzio interrotto dal passaggio del treno, ora soppresso.
Erano parte della mia vita quella vecchia stazione, quel sibili di treno.
Mi mancano treni e stazioni, insomma.
I viaggi no, quelli ci sono ancora.
Non m’importa la meta, m’importa fermarmi di notte in un autogrill in autostrada, dopo aver guidato. M’importa salire su un treno, la mattina all’alba dopo aver bevuto un caffé doppio, fumato e messo nello zaino un paio di libri, un bloc, una biro.
Ho nostalgia di un vecchio cinema, di una vecchia trattoria, di una vecchia stazione, anche di un’automobile….
Dei viaggi no: ricrescono come fiori
(E nella mia mente, chissà perché, vanno spesso a braccetto le nostalgie, i viaggi e anche i sogni, che però sono, i sogni, un altra grande libro con tanti capitoli: dall’amore, alla rabbia, alla voglia di…)

Un sabato in un bar lontano da casa

Per esempio sabato, questo sabato, 23 ottobre.
Alle 11 circa sono in un bar di un centro, a un’ora di macchina da casa mia. Ho accompagnato mio figlio (13 anni a gennaio) a un torneo di basket. Mio figlio ha giocato la sua prima partita e io sono nel dehors del bar, con computer e due libri nello zaino***.
Sono stanco: ho dormito meno di quattro ore. Prendo un caffè macchiato, poi un altro, vorrei o leggere o lavorare. Non posso. Troppo stanco per essere concentrato mentre delle persone parlano.
Il dehors è piccolo, il bar è l’unico nelle vicinanze. O sto lì o mi rinchiudo in auto, mi dico.
Le persone che parlano mi fanno pensare.
Non parlano né di covid (per fortuna) né del nuovo governo (avrei ascoltato con piacere).
No. Si tratta di persone che sbagliano i congiuntivi, mentre parlano (anche mio padre li sbaglia: se non hai potuto studiare vuol dire che… non ha potuto imparare il congiuntivo), e soprattutto parlano di cose di cui, a me, frega niente.
Parlano di pastiglie di freni e di dischi dei freni. Quanto costa rifarli a questa macchina, quanto costa per quest’altra…
Come saranno le pastiglie dei freni?, mi domando.
Mai avuto la curiosità di verificare. Ma son tante le cose di cui mi frega niente, cose e anche persone (un esempio a caso: Briatore; se leggo un titolo su di lui, cerco altro).
Insomma, penso che devo alzarmi, sgranchirmi le gambe,. sopravvivere fino alle 18 quando tornerò.
Ma ecco che quando sto per andarmene arriva una signora anziana. Cammina con l’aiuto di un deambulatore. Si avvicina, dice: Chissà se mi portano un caffè macchiato?
I cinque che mi stanno sfrucugliando le palle con i loro discorsi su pastiglie e dischi dei freni si alzano. Una va al bar a chiedere il caffé macchiato, gli altri fanno posto alla signora e l’aiutano ad accomodarsi.
Mi fermo anche io, ancora un po’.

*** I due libri che sto leggendo sono: Padri di Giorgia Tribuiani, e Intrigo bretone di Jean Luc Bannalec.

Interviste radiofoniche: a Fahrenheit e… alla stazione, un mattino d’inverno

Giovedì 20 luglio 2006. Ho 49 anni, ho pubblicato due libri, dirigo il giornale La Sesia da un anno. Uno dei due libri pubblicati si intitola Lo scommettitore, casa editrice Fernandel.
Quel giovedì sono a Torino, negli studi Rai. Invitato per un’intervista dalla trasmissione Fahrenheit, allora diretta da Marino Sinibaldi. Fa caldo e sono teso: mai stato intervistato, prima.
Due cose.
Uno: non mi sono mai riascoltato.
Due: quell’intervista, e il fatto che poi i radioascoltatori votassero Lo scommettitore come “Libro del mese Fahrenheit” fece sì che su di me ci fosse un certo interesse (agenti letterari, giornalisti, editori).

L’intervista è QUA

Non mi sono mai riascoltato, dicevo. So che sarei ipercritico, perché le cose si possono sempre dire meglio (e io non sono brillante). Ma c’è un’intervista che vorrei riascoltare. Un mattino d’inverno, era appena uscito Bastardo posto e io ero alla stazione con mio figlio, che avevo un anno e mezzo. Lo portavo a vedere i treni, poi lo avrei consegnato a mia madre e sarei corso in redazione. Squilla il telefono. Una radio lombarda (non ricordo quale) mi chiede un’intervista, appunto su Bastardo posto, ma subito subito. Spengo il toscano, prendo mio figlio in braccio e gli faccio cenno (il dito sul naso) che non deve parlare. L’intervista dura poco, cinque minuti, e tutto fila liscio fino ai saluti finali. Quando l’intervistatrice dice “Salutiamo Remo Bassini…” mio figlio si avvicina al telefonino e dice “Ponto, ponto…”:
Ecco, vorrei riascoltarlo quel finale.

Ammattire per eccesso di studio

Ho lavorato per trent’anni circa al giornale La Sesia.
Certe sere, anzi no, certe notti tornavo in redazione. Mi piaceva sfogliare le vecchia testate. Alcuni articoli che mi colpirono (non c’erano ancora smartphone o ipad per fotografare) li ricopiai. Qualcuno l’ho conservato. Questo per esempio. Mi son sempre chiesto, da allora: chi saranno i due poveracci ammattiti per eccesso di studio?

4 aprile 1871
(….)
Il numero degli alienati ricoverati nel Manicomio il 31 dicembre 1869 era di 50 – 28 uomini cioè, e 22 donne.
Nel trascorrere dell’anno 1870, s’aggiunsero a questi altri 57 uomini e 32 donne, cioè 89 alienati, ed il numero totale dei ricoverati nel M. di VC. toccò allo spirare del 1870 il numero di 139.
Nel corso dell’anno però si verificarono alcune uscite dallo stabilimento…, 18 per guarigione, 19 per morte…
(….)
Ma un quadro speciale che merita una seria disamina è quello delle cause della pazzia: riepiloghiamola accuratamente.
Pazzi per causa morbosa o ereditaria, uomini 16, donne 8.
Per vizio e sregolatezza, uomini 10, donne 2.
Per affezioni morali, uomini 29, donne 22.
Per cause materiali, uomini 3, donne 1.
Per eccesso di studio, 2 uomini.
Nelle affezioni morali il numero maggiore è rappresentato da dispiaceri domestici; la gelosia, la religione, la gioia, la paura, l’amore contrastato hanno tutti i loro rappresentanti.

Pensieri disordinati (dopo un premio)

Nel giorno in cui mi comunicano che, con La suora, sono arrivato terzo al premio Augusto Monti – primo posto a Marco Griffi, con Ferrovie del Messico (Laurana), secondo a Giorgio Bona, con Da qui all’eternit(Scritturapura) – mi vengono in mente un po’ di pensieri, alla rinfusa.
Penso alle volte che ho partecipato a un concorso (non tantissime, le mie partecipazioni intendo) e non sono stato preso in considerazione. Succede, anche ai migliori.
O alle volte in cui un mio manoscritto è stato o rifiutato o è rimasto senza risposta: l’avranno letto, adocchiato, gettato via subito?
Certi rifiuti – ho anche pensato portando a spasso il cane – mi hanno portato anche bene. Come quella volta che, alle 3 di notte, inviai un manoscritto a un editore, il più solerte a rispondere. Alle 9 del mattino, insomma sei ore dopo il mio invio, vedo la sua mail e leggo: “Non mi interessa” (senza un crepa o un buona giornata in saldo speciale). Fortuna ha voluto che poi, due anni dopo, quel manoscritto (La notte del Santo) divenne un libro pubblicato da un editore prestigioso come Fanucci.
E’ la prima volta, altro pensiero, che La suora ottiene un riconoscimento, ed è la seconda volta che arrivo sul podio.
Evidentemente la piccola casa editrice Golem mi porta fortuna: primo al Concorso internazionale Città di Cattolica l’anno scorso, con Forse non morirò di giovedì, terzo quest’anno al Monti con La suora. Avrei preferito il contrario: terzo al Ciittà di Cattolica e primo al Monti.
Ci son libri a cui ci si attacca di più.
E’ comunque: vincere un premio è una gran cosa, vincere un premio significa niente.
Quello che conta è vivere. Saper vivere. La vita è bella la vita è dolorosa. La vita, che cerco di raccontare e di capire, scrivendo. Scrivendo, per esempio, di persone normali, vere, che amano restare in disparte… A volte sono eroi silenziosi.
Buone cose a tutti quelli che passano di qui.

Ci son frasi che vorrei….

Magari succede a tutti di sentire voci. Io mi accorgo che qualcuno mi sta parlando, ma a volte sono io quello che sta parlando, quando mi risveglio. Più il risveglio è brusco e più son forti e chiare certe frasi, parole che non so da dove arrivino né so codificare.
Sarà il mio sonnambulismo, chissà (una notte dormivo con la testa sul tavolo di cucina, anzi no, credevo di dormire. Improvvisamente mi risveglio e, quando mi risveglio col cuore che fa tam tam tam e poi ancora tam, vedo che sto scrivendo su un’agenda. Provo a leggere: parole incomprensibili. Quell’agenda è in un baule, prima o poi la tiro fuori).

Tutto questo per dire che mi sarebbe piaciuto risvegliarmi con una frase come questa (ho scoperto che è uno degli haiku più noti). L’avrei usata per l’incipit di un libro che… non ho in mente.

Virgolette

I puntini sospensivi spesso rivelano scritture poco attente alla lettura di autori e libri che – basta leggerli – insegnano a scrivere.
Basta leggere con attenzione, quasi al rallentatore.
Ricordo un radioascoltatore che, durante le trasmissioni di “Dentro la sera” (son corsi di scrittura) domandò a Pontiggia: Può servire copiare pagine o estratti di pagine di bravi autori?
Pontiggia rispose che sì, poteva servire.
I punti sospensivi, dicevo.
Vanno usati quando servono.
E le virgolette dei discorsi diretti?
Marco disse: «Giulia, oggi non mi sento di uscire».
E se, invece, leggessimo?: Marco disse: Giulia, oggi non mi sento di uscire.
Sto scrivendo questo perché sto leggendo un libro di una brava (a mio avviso) scrittrice italiana, Giorgia Tribuiani, che nel suo libri “Padri” (Fazi) non fa uso di virgolette.
Non è l’unica, certo. Non mancano esempi illustri, Saramago, McCarthy.
Ho scritto due libri, io, senza l’uso di virgolette caporali nei discorsi diretti: Lo scommettitore (Fernandel, editing di Giorgio Pozzi) e Bastardo Posto (Perdisa, editing di Luigi Bernardi).
Poi… sono stato tentato, ma so che, spesso, editor ed editori preferiscono percorrere binari percosrsi da altri, chissà perché.

Pagina 41, “Padri” di Giorgia Tribuiani
Mooolto meglio, commentò Gaia ritrovando il sorriso. Lui guardò il figlio. E la scuola? Voi padri, disse lei, non smettete mai di chiederlo, è così?

“La suora”: storia di storie che vivono poco

Il mio romanzo – forse un giallo – “La suora” è…
è la storia di un amore spezzato, interrotto, vietato, calpestato…
è la storia di un altro amore, quello del protagonista Romolo Strozzi per Nora (suor Beatrice), ma si tratta di un’ossessione amorosa, un amore impossibile, forse, ma quando tu, di un amore impossibile, aggiungi “forse” si apre comunque un piccolo spiraglio di luce…
ed è, anche, la storia di un omicidio brutale, ma al tempo stesso comprensibile: un omicidio, può essere comprensibile?…
Ed è anche, La suora, un libro sulla voglia, sul desiderio di vivere in un luogo dove, quando ti addormenti, guardando la finestra puoi vedere un monte con gli abeti innevati innevati, lontano insomma da città morte e coprifuoco di oggi (lockdown) o di ieri (fine della guerra, con regolamenti di conti)…
Ed è anche un po’ autobiografico: ho tante affinità con Romolo Strozzi. Non ho radici, io, ma luoghi a cui sono legato. E mi piace addormentarmi sentendo il “suono” dell’acqua di un fiume che scorre.

Come Nora (insomma La suora) è un’ossessione per il protagonista del libro, Romolo Strozzi, così questo libro è diventato, più di tutti gli altri, un’ossessione per me.
Se pubblichi con un piccolo editore certo che lo sai: non arrivi da nessuna parte.
Nessun Corriere ti recensirà, nessuna libreria ti esporrà in vetrina, nessun concorso letterario prestigioso ti prenderà in considerazione (e tu lo iscrivi, il tuo libro, a concorsi vari, cosa che non avevi mai fatto in passato, perché ci tieni che si parli de La suora, solo per questo: non ti importano né i soldi né le cerimonie di premiazione: quando salgo su un palco non vede l’ora di scendere).

E l’ossessione si traduce nel controllare ogni giorno la classifica su Amazon (a quasi un anno di distanza dalla pubblicazione ogni tanto qualche acquisto, certo sporadico, comunque c’è: nel cartaceo e negli e-book), nel verificare, poi, se qualche premio ti ha preso in considerazione (il Monti, per adesso), e nel chiederti In fondo hai 66 anni, un figlio piccolo (13 anni da gennaio) e tutto il giorno è pieno di impegni lavorativi (infovercelli24, la testata che dirigo)…
Certo che sì: finché campo mi sa che sognerò di diventare uno scrittore talmente famoso da poter fare a meno di presentazioni, profili facebook, recensioni.
La mia scrittura, questo blog, magari una baita in montagna, la stessa in cui vive Romolo Strozzi, o una casa che si affaccia sul lago d’Orta, così da poter salutare, ogni mattino al risveglio, Nora…

Era già successo. Dopo aver scritto La donna di picche mi ero detto: scriverò ancora un libro se sarà all’altezza o de La donna di Picche o di Bastardo Posto… Sì, alla fine, mi son detto che sì, La suora è all’altezza di Bastardo Posto e de La donna di picche: due libri, comunque, dimenticati, da archiviare.

Scrivere è anche questo: storie che vivono poco, come certi cani che però rimpiangerai per tutta la vita…

Deridere

Ho tanti difetti, tanti, ma non mi sentirete mai fare battute sull’aspetto fisico o sulle imperfezioni di qualcuno.
Ho imparato cammin/vivendo.
Ricordo numero uno.
Ho un ricordo che vorrei cancellare. Avevo 14 anni, era estate, ero in vacanza da alcuni miei parenti contadini. E avevo conosciute alcune ragazze della mia età. Una di loro si chiamava Lucia, che è un nome ricorrente in tanti miei romanzi.
Un giorno mi ritrovo insieme ad alcuni adulti. Alcuni sono parenti, altri non li conosco. Un mio zio mi fa: “Non vedo Lucia… ti piace Lucia?”.
Dissi: “Non mi piace, è brutta”.
Dissi senza sapere che c’era la madre di Lucia lì, in quel gruppo di persone.
Ricordo il suo sorriso. Lo ricordo ancora adesso, come un’assoluzione per un mio peccato di quattordicenne, certo, ma non tutti i quattordicenni sono sboccati. Sorrise a me e agli altri, e io quel sorriso amaro, da allora, me lo sono sempre portato appresso. Di Lucia non ho ricordi.

Anni dopo. Una sera vado a fare una tac a Pavia (nella mia città non le facevano). Era buio. Prima di me c’era un bimbo dalla testa enorme. Avrà avuto sette, otto anni, ma sembrava più grande. Ricordo che fissava il vuoto. C’era suo padre, con lui, un omone con la barba. Ecco, a distanza di anni, quando sento qualcuno che dice o leggo qualcuno che scrive la frase “accarezzare con lo sguardo” ripenso allo sguardo di quel padre.

Ci dimentichiamo troppo spesso che siamo essere imperfetti (destinati a invecchiare e a morire, anche)

Il titolo sbagliato di un mio libro un po’ complottista

Quello che segue è l’incipit con un breve estratto di un giallo un po’ complottista (un personaggio dice che certe diete son meglio delle medicine e della chemio) ma che è comunque un giallo. Ha una copertina gialla, ci può stare. Quello che è sbagliato è il titolo: “Vegan. Le città di Dio”. Chi ha sbagliato il titolo non è l’editore, ma io. Il titolo giusto sarebbe stato “Le città di Dio”.

L’incipit.

Un giorno mio padre mi disse che la voce di dio si sente solo quando la notte è fonda: è l’acqua del fiume che scorre.

La pioggia e il vento che fanno sbattere le finestre l’hanno svegliata. Sono le tre passate da quattro minuti. Luca si sarà addormentato davanti al computer. Deve svegliarlo, avrà la schiena a pezzi. Lo chiama. Niente.
Il computer è acceso, ma Luca non c’è. E non è in bagno, non è in cucina, né sul balcone a fumare una sigaretta di nascosto (ogni tanto lo fa, come se lei fosse fessa). Purtroppo non può essere nemmeno fuori con Fosca, pensa Andreina, ma è un pensiero da gettare via altrimenti piange, perché Fosca è stata soppressa; inutile quindi andare in balcone a controllare se c’è il guinzaglio. C’è. Quando va a stendere la biancheria non ha il coraggio di guardarlo. Rimarrà lì, crocefisso sul muro. “Il guinzaglio dell’unico cane della mia vita”.


Poi, ecco l’estratto.

Ha preso in affitto un monolocale, nel vecchio borgo dei pescatori. Per la prima volta in vita sua, Anna Antichi – lei che ama gli imprevisti – aveva ipotizzato di trascorrere quaranta giorni fotocopia: sveglia al mattino presto, poi colazione e prima sigaretta in spiaggia, quindi sole, un bagno, e ancora sole; fuga dalla grande invasione, verso le dieci o prima. E passeggiate, letture pomeridiane in appartamento; e dieta a base di tanta frutta e insalate, così da controllare il peso e se possibile perdere qualche etto, almeno.
Invece è ingrassata, abbuffandosi di acciughe fritte, orate, calamari, merluzzo nelle trattorie di Noli e Borgio Verezzi. Pensava di non usare mai l’auto, ma quando ha piovuto o c’era vento è andata a Genova e a Imperia. Si è goduta Varigotti, comunque; è stata alla larga dai quarantenni che l’adocchiavano e ha evitato le sessanta-settantenni con la voglia di socializzare stampata in fronte. E ha scelto uno stabilimento balneare gestito da liguri taciturni, un po’ scontrosi. Si è trovata bene con loro.
È un venerdì di fine luglio. È arrivata da poco, è arrivata dopo aver inseguito un giovane rom che suonava la fisarmonica. Sembrava, ad Anna, che la fisarmonica di quel rom facesse parte del suo corpo, e quando lui ha continuato a suonarla prendendo per mano la figlia che lo seguiva, la sensazione s’è fatta incantesimo. Ha voluto raggiungerlo, dare dieci euro alla bambina, poi salutare ed essere salutata dalla musica.
Oltre a leggere Il diavolo di Pontelungo di Riccardo Bacchelli ha un programma preciso, oggi, un programma che richiede impegno e volontà: una sigaretta ogni due ore, anziché le consuete due all’ora, a volte tre. Stasera si darà un premio in trattoria: insalatona e scorpacciata di gamberoni alla griglia, il pesce che più ama. E un bicchiere di vino rosso, o birra se la sete è tanta.
Per tenere impegnata la bocca, avrebbe dovuto comperare della buona liquirizia di Calabria, quella che le prendeva in farmacia suo papà, quando era piccina. Lo farà domani. È l’una meno un quarto, tutti che mangiano, sotto gli ombrelloni o al bar.
Anna, che ha ancora in mente la musica della fisarmonica rom, sta rispettando il programma. Mangia uva e albicocche, adesso, dopo si concederà un caffè; e alle tredici in punto si concederà la quarta sigaretta.
Chi è il tipo che la sta guardando e si sta dirigendo verso di lei? È a mezzo metro, perché vuole stringerle la mano?

Sul libro:
https://it.wikipedia.org/wiki/Vegan_-_le_citt%C3%A0_di_Dio