voci rubate

La gatta, tigrata, occhi bellissimi e verdi, bada al sodo. Vuole i croccantini e quindi miagola, con insistenza.
Sto lavorando, non mi spiace lavorare la domenica in redazione, dopo un pranzo non pranzo (succo di pomodoro e taralli alla cipolla) e due, tre, quattro caffè.
La gatta, dicevo. Ci fa visita, ogni tanto, ci fa visita perché sa che la segretaria del giornale le dà le crocchette a comando: lei miagola, e la segretaria esce, e le versa il cibo in un piattino, nell’angolo del cortile. Quando la chiamo, perché o arrivo o esco, gira al largo.
Oggi però le vado bene anche io.
E comunque è preziosa, ché tieni lontani i topi e se ne vede li uccide e poi li porta in regalo alla sua padrona, mi han detto.
Oggi lavoro perché domani, lunedì, ho troppi appuntamenti, troppi casini.
Un paio d’ore nel silenzio della redazione (ci ho scrittodiversi capitoli del mio primo libro, in redazione, una quindicina di anni fa; ci ho trascorso notti, rincascasando quando gli altri si svegliavano).
Esco dall’ufficio che saranno le quindici, c’è poca gente in giro anche perché il cielo è grigio, non invoglia.
Sul corso principale della città c’è solo una coppia, sono giovani, sui trent’anni. Lui dice a lei che l’economia non va, perché son troppi i negozi che chiudono. Dietro a me due ragazzine. Che poi, parlando, mi superano.
Saranno sui tredici, massimo quattordici anni.
Una dice all’altra: Devo riflettere, perché il fatto che io stia bene con una persona solo quando la vedo poco è sinonimo di qualcosa che non va.
Poi entrano in un bar.