cronache del 1900

domenica 18 febbraio 1900
Infamie
Certa Bobola Delfina, d’anni 51, di Villanova, venditrice di giornali a Biella, il giorno 14 corrente si recava per suoi affari alla cascina Mandria, presso Santhià.
Giunta verso le 18 a Cavaglià, trovò per la strada due individui a lei sconosciuti, che su di un carro si dirigevano a Vercelli, e li pregò di trasportarla fino alla detta cascina. I due acconsentirono, ma giunti alla Mandra, anziché far discendere la Bobola, non ostante le sue proteste sferzarono il cavallo e continuarono il cammino velocemente verso Vercelli.
Strada facendo, quando già si era fatto buio, l’uno dopo l’altro, con violenza, sfogarono le loro voglie sulla poveretta, e verso le 21 e mezza, prima di entrare in Vercelli, la fecero scendere, consegnandole una borsa che essa portava con sé e che era rimasta sul carro. La Bobola, apertala, si accorse che mancavano quattro lire in biglietti, che teneva in un piccolo memoriale nella borsa stessa.
In seguito a querela sporta dala stessa, il brigadiere dei carabinieri signor Suppo Giovanni ed il vice brigadiere Bassani Innocente, colla scorta di pochi connotati forniti dalla Bobola, dopo attive indagine riuscirono a identificare e ad arrestare i due colpevoli, che sono certi B. Andrea di anni 21 e I. Ferdinando d’anni 18, entrambi negozianti in pollame in Vercelli…
Entrambi sono stati denunciati al procuratore del re.

sempre il 18, pubblicità.
Avviso
Il sottoscritto rende noto al rispettabile pubblico di aver aperto in via Gioberti, n.1 un nuovo spaccio di Vini toscani e del Piemonte di lusso e da pasto, in fischi ed in bottiglie, e che vende all’ingrosso e al minuto da trasportarsi.
Per Circoli Carnevaleschi vino bianco dolce a 0,60 al litro.
Rossi Leonardo.

 

tratto dal giornale La Sesia, Vercelli, bisettimanale fondato nel 1871, ora diretto da me

a proposito di depressioni editoriali

Ho trovato quanto segue tra le nascoste dentro la pancia di questo computer; è cosa, questa, scritta quasi un anno fa.
Buona domenica a tutti

Mentre la signora mi dice che le case editrici importanti aspettano il fenomeno da lanciare sul mercato, magari il bel ragazzo di venticinque anni che ha scritto un buon libro, io faccio di tutto, a, per non deprimermi, b, per non replicare, ché ho tanta voglia di dire alla signora che io a venticinque anni lavoravo in fabbrica, c’ero voluto andare, cazzo, c’ero andato perché pensavo che avrei cambiato il mondo, e cambiare il mondo, cazzo due volte, cazzo contraffatto, cazzo maledetto, è più importante di scrivere un libro, ché anche io a vent’anni volevo scrivere, a vent’anni, io, avevo letto (oltre a marx, gramsci, trotskij, che guevara) camus, guerra e pace, avevo letto tutto remarque e tutto steinbeck, io a vent’anni, anzi prima, a diciotto, ero andato al bar, c’era gente che allora aveva l’eskimo e ora vota forza italia, e avevo letto una poesia di neruda, e tutti lì a dire, forteee che bella, ma dove l’hai trovata?, dài, ridilla che la copio, e io, dopo un’ora di ricopiature mi ero beccato un bel po’ di vaffanculo quando avevo svelato che la poesia non era di neruda ma mia.
Mi dicevan tutti, quando avevo vent’anni, che sarei diventato uno scrittore. Forse perché andavo sempre in giro con dei libri, o forse perché avevo la barba e fumavo la pipa, ché a vent’anni la barba ce l’hanno in tanti (io ne avevo tanta, ma pochi baffi), ma la barba più la pipa era una cosa, appunto, da scrittori…
E comunque.
Alla signora tanto non interesserebbe.
E poi: la signora è una che sa cose del settore editoriale. In questo momento – va bene mi deprime – mi sta dedicando il suo tempo, e non mi chiede niente in cambio.
Mi dice, allora il suo primo libro…
Poi mi chiede del secondo. Del terzo.
De La donna che parlava con i morti sa, le hanno riferito che ha venduto bene.
Non benissimo, ma bene (3-4mila copie).
E’ una donna che sa, lei (giuro).
Ora le spiego una cosa, mi dice.
Io ascolto e non la interrompo. Magari mi deprime, ma so che lei è addentro (e fanculo ai venticinquenni bellocci col manoscritto in mano, penso).
Allora, supponiamo che lei ora esca con un libro e poi ancora con un altro, e supponiamo che questi libri vadano maluccio, diciamo sulle 2000 copie, sa cosa l’aspetta?
Taccio, così lei mi spiega (e mi deprime).
Che i librai e gli editori (i librai soprattutto possono verificare sul computer se un autore ha venduto o meno) non vorranno più sentir parlare di lei e lei, se vorrà continuare a scrivere, sarà costretto a trovarsi un piccolo editore serio, sempre che lo trovi e sempre che lei abbia voglia di scrivere ancora.

Fine delle trasmissioni.
La signora in oggetto è stata chiara, mentre mi raccontava (deprimendomi).
Per consolarmi mi ha citato il caso di un libro, appena uscito, almeno 20mila copie distribuite.
E’ uscito tre mesi fa e già cominciano a ritirarlo, ha fatto un flop clamoroso, perché quest’anno c’è la crisi, mi dice la signora (come per consolarmi).

Questa cosa qui mica è piaciuta ad alcuni amici scrittori a cui l’ho raccontata.
Non penso che le parole della signora siano da prendere come oro colato, penso comunque che mi son servite.

A chi sogna e invidia quelli che pubblicano: pensate di vedere il vostro libro, con una bella copertina in quadricromia, rosso e un bel giallo dominanti, che viene ritirato da una libreria.

Era meglio quando scrivevate; quando si scrive è lecito sognare; quando si è scritto è lecito deprimersi?
Vien da dire no, c’è di peggio a questo mondo.
Ma a chi scrive vien da dire sì, che è lecito deprimersi.

i quindici giorni

senza pensarci troppo:
– i quindici autori che ti hanno lasciato un segno
– i quindici libri
– i quindici film
– i quindici blog

variante
– le quindici cose che non sopporti

andiamo oltre
– i quindici (o quattro o trantatré) amori
– le quindici persone più signifivcative, escludendo i parenti

andiamo sul difficile, ora
– i quindici giorni della tua vita da ricordare

il un libro di Renato Olivieri (non rammento quale) c’è una bella paginetta.
Il commissario Ambrosio si trova in campagna, fa caldo, allora si toglie la giacca, ruba una mela, e si siede sotto un albero, e pensa.
Pensa che sono questi i momenti da ricordare, e pensa anche che la vita è fatta  di queste piccole cose che scappano via…

la strada, soprattutto

La sveglia suona verso le 9. Solitamente ho dormito cinque ore, a volte di meno. Colazione, pc per contrallare la posta elettronica, lavoro in redazione, ritorno a casa, ancora redazione, a volte fino alle 18, a volte fino alle 23, dipende.
Poi passo più tempo possibile col bimbo (Federico Libero proprio oggi compie dieci mesi), faccio una passeggiata col cane, mi piazzo davanti al pc (suppergiù dalle 23 all’una), mi sposto in cucina a leggere (fino alle quattro).
Certo, faccio unlavoro che è fatto anche di incontri: gente che viene, e che mi racconta. Di tutto.
Qualcosa finisce sul giornale, tante cose no.
Quest’anno poi è stato un anno bastardo: son venuti in tanti da me a chiedere se sapevo di un lavoro. Ho visto gente piangere, insomma. Posso fare niente, io.
Ma ho come la sensazione che la vita scorra lontano da me.
Mi mancano le sale di aspetto della stazione, mi mancano i bar di periferia dove andavo a rintarnarmi con un libro, mi manca il girare a vuoto di notte in macchina, e poi, e poi: soprattutto mi manca la strada.
Senza la strada mi restano i ricordi che, va bene, sì, possono aiutarmi a scrivere uno, due libri, ed è quello che ho fatto fin’ora (che se si esclude Bastardo posto i miei romanzi son tutti romanzi di nostalgie, anche se non solo) ma senza la strada son niente, io, son vuoto, insomma.
E non è che in strada uno deve incontrare chissà che: basta vedere, basta respirarla la strada.

Gatti che fanno bestemmiare (la pioggia son le lacrime dei morti)

Sarà che pioveva quel giorno, quando io e Sonia (mia figlia) sotterrammo Lilli, sta di fatto che quando piove, nei giorni invernali, a me prima viene in mente una frase bislacca (la pioggia son le lacrime dei morti) e poi viene in mente lei, Lilli, la “sorellina” che ha dormito nel letto di Sonia per vent’anni, la gatta che però, quando sentiva che io ero sveglio, mi raggiungeva in cucina facendomi bestemmiare, perché o voleva saltare prima sulle mie ginocchia per poi adagiarsi sopra il libro che stavo leggendo o studiando, oppure perché voleva che io dividessi con lei il mio pacchetto di fonzie’s, che a me servivano, con marlboro e caffè, per star sveglio, mica per altro, “lasciami in pace Lilli, fammi studiare” le dicevo.
Quando è morta io non c’ero in casa, non vivevo più lì.
Ma l’abbiamo sepolta insieme io e Sonia.
E pioveva.
Ed era un giorno di pioggia come lo è stato ieri e come lo è ora.

Ora ho un gatto maschio, si chiama Miou Miou.
Non aspetta altro, lui, di notte: che io raggiunga il computer; così, poi, con l’insistenza dei gatti mi chiede o di uscire in cortile e, poi, quando rientra, i croccantini.
Solo gatti che fanno bestemmiare ho, io.

crisi

Ha ancora un sorso di vino nel bicchiere, il mio vecchio. Sta parlando, sta raccontando qualcosa, io però sono concentrato su quel suo bicchiere e so che se lo gusterà quel resto di vino e penso che mio padre è strano: alcune cose le cambia sempre (elettrauto, meccanico, elettricista, macellaio, banca dove è costretto ad avere un conto corrente per rivecere una piccola pensiona di quando faceva il boscaiolo in francia) altre invece no (il libretto di risparmio postale, sempre lo stesso posto dove andare al mare, ossia Follonica, e cantina sociale, che sta a Casorso, dove andare a prendere il vino, poi da imbottigliare).
Quando mi mette ad ascoltarlo mi son perso qualcosa…
Sta raccontando di essere stato in una concessionaria di auto (non so quale non so nemmeno il perché, dal momento che ha una Fiat Uno da vent’anni e forse più) e di aver visto una donna piangere.
Ha portato la sua macchina, una Punto del
(non ricordo l’anno, ero ancora piuttosto distratto)
con tredicimila chilometri, una bella Punto, ha chiesto quando gli davano e quando ha sentito che gli davano solo duemila euro si è messa a piangere…
Come si è messa a piangere?, interrompo
Oooh… (pausa), poi (altra pausa) è venuta da me e mi fa, me la prenda lei, me li darebbe duemilaecinquecento euro?
E tu?
Io mi sono scusato… non è per i duemilacinquecento euro, è che son vecchio, va a sapere quanto guido ancora, a me va bene la Uno, quando la Uno si ferma io piglio e vado in bicicletta
Ma piangeva?
Piangeva
E aveva bisogno di soldi?
Sììì (guardandomi torvo)
Ed era giovane?
Era giovane, sì.
E com’è finita?
Che ha accettato i duemila euro, che poteva fa’?, ma avessi visto come piangeva.
(Non ho poi fatto caso se e come abbia gustato l’ultimo sorso, il mio vecchio)

nel 1983

Sono a casa in malattia, non succedeva da dieci anni almeno, forse più. Tosse, febbre, che sta passando. La tosse no, fa resistenza, colpa, credo, anche delle troppe sigarette (oggi comunque vado di pipa).
Con tosse e febbre per anni sono andato lo stesso lavorare, comunque.
Con tosse e febbre penso sempre a due cose, io.
A quando ero ragazzo, mi ammalavo mai. Dal momento che perdevo sempre gli ombrelli che piovesse o nevicasse io percorrevo i due chilometri che mi separavano da casa a scuola in bicicletta, andando veloce e basta, arrivando quindi zuppo, ma andava bene così. E tanti pomeriggi giocavo a pallone in oratorio sotto la pioggia, non solo: m’arrabbiavo con quelli che preferivano non giocare.
La seconda cosa a cui penso è un anno, il 1983.
Lavoravo in fabbrica, e mi ero iscritto a lettere, a Torino. Frequentando.
La mia vita era: sveglia alle 6, treno alle 7, lezioni a Torino dalle 9 alle 11, poi treno da Torino a Vercelli, pasto veloce (solitamente una mozzarella o un po’ di verdura e un bicchiere di vino), poi pullman che mi portava in fabbrica, poi fabbrica per otto ore, poi pullman, poi mezz’ora con mia figlia, poi sveglio fino alle 3 di notte (avrei dormicchiato sul treno).
Ecco quell’anno: non beccai nemmeno un raffreddore. Volevo stare bene e stetti bene. Non persi una lezione dei quattro corsi che seguii (Letteratura moderna e contemporanea, Geografia storica, Psicologia dinamica, Storia Romana), non persi un giorno di lavoro in fabbrica.

Non solo. Io dal 1976 al 1980 ho avuto qualche crisi epilettica (malattia ereditaria, nel mio caso). I medici, oltre ai farmaci, mi diedero un’indicazione precisa: dormire almeno sette ore, avere insomma una vita regolata.
Bene, nel 1983 mi abituai a dormire 3-4 ore e fare brevi pennichelle di pochissimi minuti durante la giornata; mi ci abituai senza paura: sentivo che sarei stato bene.

Solitamente sto bene anche quando scrivo o riscrivo un libro. E quando qualcuno mi chiede “dove lo trovi il tempo?” io, anche in questo caso, ripenso al 1983.
Certo, non credo di aver mai visto la televisione quell’anno, e la domenica era un giorno di clausura sui libri, e che fosse primavera me ne accorgevo guardando la finestra, ma tant’è.
E buona giornata

PS Ne scrivo con orgoglio del 1983; so bene che chi si loda s’imbroda ma è un pensiero costante che mi fa bene tenere a mente.

tre cose su Bastardo posto

Due, anzi tre cose su Bastardo posto:
1 – la recensione che ha scritto Milvia Comastri nel suo blog.
2 – dal sito di Perdisa, le prime pagine del libro, per chi volesse leggerle
3 – e questa settimana esce una mia intervista su Left

Rispetto agli altri mie libri su Bastardo posto ci son poche cose, sia su carta che in rete.
Credo però (è un credo dubitativo) che al libro possa aver giovato il passaparola che c’è stato su Facebook; anche perché negli ultimi tempi gli accessi a questo blog sono raddoppiati.
Non mi lamento, quindi.
Farò altre presentazioni, inoltre.
Domenica 12 dicembre a Trino Vercellese.
A metà gennaio 2011 a Martinafranca e a Bari.
Sempre a gennaio (data da definire), a Livorno Ferraris (altro centro vicino a Vercelli).
A fine febbraio a Sermide.
E adesso, con una buona dose di mal di testa causa il troppo fumo e il troppo poco sonno, mi metto a lavorare, che è una giornataccia, oggi.
Fortuna che c’è unpo’ di sole.
Buona giornata

brutta bestia la cronaca nera

Una volta, insomma quando ho iniziato io, non c’erano regole: e, alla faccia della privacy, sui giornali si scriveva di tutto.
Oggi – almeno per me – il confine tra cosa si può scrivere e cosa invece non si può scrivere è nebuloso. Col risultato che alcuni colleghi sono stati condannati con motivazioni assurde, col risultato che tanti altri colleghi preferiscono non rischiare e arrivare al 27.

E’ successo questo nella mia città. Un commerciante è stato denunciato: palpava le sue commesse.
I giornali ne hanno dato notizia, senza nome.
Stamani un piccolo giornale (concorrente al mio, che a Vercelli è il più letto) esce con alcune interviste (anonime) ad alcune commesse palpeggiate e, a caratteri cubitali, in prima pagina è comparso questo titolo (vado a memoria): Ci toccava il sedere.

Oggi ricevo una mail personale. Un lettore, indignato, mi dice che è stato sbattuto il mostro in prima pagina, mi dice che articoli di questo genere non sono certo… evangelici.

Gli ho risposto dicendogli che, uno, quel titolo non garba nemmeno a me, due, che, due, il rischio di sbattere il mostro in prima pagina lo corrono tutti i giornali che fanno cronaca nera e che, tre, la notizia del commerciante palpeggiatore era giusto darla.

Senza nome e cognome del molestatore?
Questo sì che è un gran quesito (rispondete, se volete, vi leggerò, ma non credo che commenterò).

Una decina di anni fa, forse dodici, sempre nella mia città successe questo. Un tipo cominciò a ricattare una dipendente di una cooperativa che faceva le pulizie dove lui lavorava.
Lei lo denunciò e i carabinieri lo arrestarono mentre stava per tirarsi giù i pantaloni.
Fu arrestato, i giornali pubblicarono il suo nome e il suo cognome.
Lui, dopo aver ammesso tutto, invece di tornare dalla moglie e dal figlio andò a gettarsi sotto il treno.
Gran brutta bestia la cronaca nera.
Un conto sono le minacce dei potenti: di quelle un buon giornalista non deve o non dovrebbe curarsi.
Un conto è la propria coscienza.