Sono cresciuto in mezzo ai figli – come me – degli operai della grande industrializzazione, ora defunta. Negli anni Sessanta, mi raccontano, Vercelli dava il suo benvenuto, Lavoro per tutti, Case per tutti, a meridionali (terun), veneti (ruigo o rovigo), sardo e toscani e calabresi.
Montefibre, Montecatini, Pettinatura Lane, Faini: era una fabbrica di sirene, Vercelli, allora.
Ora spente.
Tanti di quei figli di operai crescevano tra la merda – magari una sola stanza umida dove viveva un unico nucleo familiare – e gli schiaffoni.
Le case popolari erano poche, o in costruzione, e i più poveri vivevano in vecchie case, nel centro della città, ora diverso da allora, rifatto e restaurato.
Era così, allora.
Questo per dire: sono cresciuto in un ambiente violeno che mi fece diventare violento.
Facevo a botte tutti i giorni o quasi, l’importante era che mia mamma non lo sapesse. Il motto della mamma era: Se torni a casa e mi dici che hai preso delle botte te lo do col battipanni; se so che hai picchiato qualcuno… te le do col battipanni.
Già ne prendevo col battipanni: per via delle note, per via dei brutti voti.
(In prima elementare avevo un maestro che, così, per dimostrarsi “aperto” verso i figli della grande industrializzazione parlava spesso in dialetto vercellese).
Avrò avuto sei, sette anni, la prima volta che feci il mio primo incontro con la violenza che ti fa piangere, perché non la capisci.
Dove oggi a Verecelli c’è la Camera di Commercio, negli anni Sessanta c’era un cantiere abbandonato. Avevano scavato per costruire le fondamenta di qualcosa, e avevano lasciato “la buca”, così noi ragazzini, figli di operai, ma c’erano anche figli di prostitute e figli di gente per bene, ci davamo appuntamento lì.
Quella sera avevamo appena fatto un funerale a un gatto. Trovato morto.
Gianna (nome di fantasia), che era figlia della buona borghesia, lo avvolse in una coperta, facemmo un piccolo corteo, qualcuno lo sotterrò, ci facemmo il segno della croce.
Gianna era l’unica bambina. Parlava poco, e noi avevamo una certa soggezione di lei. Ma forse solo perché parlava poco.
Giorni prima, il fratello di Gianna, ci aveva invitati a vederle la patatina, ma a pagamento. Per cinque lire lei si alzava la gonnellina, senza mutandine. Qualcuno – i più arditi, i più grandicelli – oltre a guardare si sbottonavano e si toccavano.
Insomma, giorni prima il mio vocabolario si era arricchito di una parola nuova, perché qualcuno diceva “che bello, mi faccio una sega” prima dell’esibizione di Gianna.
Torniamo al funerale. Alla fine giochiamo, chi al fazzoletto, chi a far la lotta. Io, che dovevo rientrare, guardo un ragazzo più grande di me, incuriosito. Non avrei dovuto.
Cazzo hai da guardare, e arrivò il primo ceffone, forte, in faccia. Cercai di non piangere, ma non ci riuscii. Accadde però che arrivò un vendicatore solitario. Un ragazzo ancora più grande di noi, che non conoscevo. Lavorava già. Al funerale non c’era, lui. Quando vide che mi ero beccato uno schiaffo venne in mio soccorso: mollò un calcio al mio aggressore, e poi mi consolò con una caramellone verde che aveva dentro… il suo fazzoletto. Un fazzolettone che pulito, certo, non era.
Mi rivedo che piango e mangiò il caramellone.
Imparai a darle. Se le dai ti rispettano. Pugni, testate, morsi. A volte esagerai, credo.
Una volta feci a botte contro un’intera squadra di calcio. Io e i miei amici dell’oratorio (ma mica eravamo amici) avevamo perso, punteggio umiliante: dieci a zero. Ci sta. Ma non ci sta che alla fine ti prendan per il culo. Feci a botte contro undici, prima da solo e poi in due contro undici, perché uno della mia squadra, almeno uno (era quello che aveva arricchito il mio vocabolario della parola “sega”), venne in mio soccorso. Che strani che sono i ricordi, però: non ricordo affatto se quelle botte facevano male.
Dieci anni dopo.
E’ una bella sera d’estate, vado a cercare gli amici dell’oratorio. Non li trovo. A un certo punto sono investito da un getto d’acqua, forte, e, subito dopo, sento delle risate, sguaiate. Tre ragazzi che conoscevo si erano introdotti in una villa, approfittando dell’assenza del proprietario, e con la gomme che serviva per innaffiare il giardino avevano innaffiato me, protetti da una cancellata.
Non mi piacque quello scherzo. Li insultai, volevano fare a botte con tutti e tre. Macché: più li insultavo e più ridevano.
Due di loro erano siciliani. per cui sapevo bene come farli uscire allo scoperto: dicendo male della loro mamma.
Figli di troia, dissi io.
Cazzo credi di fare paura, dissero loro.
Mi ritrovai a fare a botte con tutti e tre, e andava bene così: le prendevo e le davo, le davo e le prendevo. La zuffa però degenera: perché vedo che sanguino, perché sento che mi hanno strappato la camicia, la camicia nuova, a righe sottili verdi, appena comperata da mia mamma alla Upim, cazzo.
Divenni una furia. Mentre due continuavano a mordermi e tirare calci, io, con il braccio sinistro affrerrai la testa del più grande, e con la mano destra, gli diedi dei pugni, che non erano solo pugni: perché per fare male – erano cose che facevamo – il mio pugno chiuso comprendeva anche una pietra.
Furono cazzi amari quando tornai a casa.
Ma soprattutto: per la prima volta capii che dovevo avere paura di me stesso.
Fu l’ultima volta che feci a botte.
Nei giorni successivi, la mamma del ragazzo tempestato dai miei pugni rafforzati da una pietra disse a mia madre che a suo figlio erano pure caduti i capelli.
Lo vedo ogni tanto, quel ragazzo. Andiamo a prendere un caffè insieme, parliamo o di Vercelli o dei vecchi tempi. Uno di quei ragazzi che quella sera d’estate mi aveva annaffiato ero suo fratello, che è morto pochi anni fa. Io e A. abbiamo in comune quindi tante cose: le botte che ci siamo dati, due fratelli più giovani di noi morti, i ricordi.
Non gli ho mai detto che se ho imparato a controllarmi, che se non ho più fatto a botte lo devo a lui (però appena lo incontro, è più forte di me, gli guardo i capelli: è stempiato, ma ne ha, ne ha…).
Erano brutte la case a ringhiera, non c’era che un cesso per più famiglie, fuori, erano umide.
Io sono cresciuto in un bel condominio, certo la casa era piccina perché i miei erano portinai, ma avevo la vasca da bagno (anche se l’acqua calda c’era solo la domenica, costava troppo averla tutti i giorni).
Mesi fa è venuto a trovarmi un ragazzo di quegli anni. Viveva in uno stanzone con la madre, prostituta, la nonna, i fratelli.
Lui scappò via da Vercelli. E’ diventato qualcuno. Tornò, quando sua madre si ammalò. Gli ho comperato una casa, è morta serena, mi ha detto.
Pure lui, ricordo, faceva spesso a botte. Ora si interessa di”cose artistiche”, a volte so che è anche in televisione, solo che io la televisione non la guardo.
Mica erano belli quegli anni. C’erano maestri che ci crescevano a calci in culo, c’erano gli ospizi, c’era tanta povertà.
Il ricordo più brutto è l’ospizio dei poveri. Ci andavo la sera, a prendere un mio amico, lo caricavo in bici e poi saremmo andati all’allenamento della squadra di calcio.
Vedeo i più piccoli, bimbi tra i sei e i dieci anni: per mano, che facevano il giro del cortile prima di andare a letto. Se penso alla parola “triste”, io, rivedo i loro volti.