voci di periferia

C’è il doppio registro ne Il contagio, ultimo libro di Walter Siti, di cui oggi si può leggere un’intervista su Il venerdì di Repubblica.
Dopo Pasolini c’è Siti che racconta le borgate romane.
Le racconta, appunto, usando il doppio registro: l’io narrante è il docente universitario, colto, i virgolettati sono le voci della borgata, volgari e sgrammaticati. E che trasudano vita.
Siti, che al mattino quando si sveglia apre la finestra che dà sui giardini vaticani, dice (nell’intervista).
In borgata mi trovo meglio, vengo da una famiglia povera, trovo le maniere borghesi terrificanti, deleterie per l’eros. E quando capii di essere omosessuale, i muscoli si trovavano solo in periferia, muscoli funzionali, da pugili, non fini a se stessi come oggi.

Non so nulla delle borgare romane.
So – e qualcuno stenta a credermi – che esistono borgate poverissime anche qui, nel ricco nord.
Anche io, come, Siti, vengo da una famiglia povera.
Anche io, come Siti, ho ammirato quel mondo. Ragazzi che avevano imparato a spacciare a tredici anni perché la vita a loro aveva offerto solo quello.
Siti ha scritto un grande libro, è un grande scrittore.
Il registro della borgata, la parlata della borgata, l’anima della borgata è – ma è una supposizione, questa mia – l’asse portante del suo ultimi libro.
Siti però, al mattino quando si sveglia si sveglia e non è in borgata. E’ in una casa elegante (suppongo), ben riscaldata, pulita.
La borgata, al massimo, può essere la sua seconda casa.
Magari ci vorrebbe vivere sempre, non so.
Come dicevo ho passato due anni della mia vita con ragazzi senza futuro, spacciatori, delinquenti. Cresciuti in una povertà desolante.
A differenza di Siti io ho visto che molti di loro il sesso lo hanno vissuto nel peggiore dei modi: nelle case piccole e sovraffollate può accadere di tutti. Molti si vergognavano a raccontarmi. Molti, vergognandosi, hanno raccontato a qualche assistente sociale (ce n’è qualcuna che capisce quel mondo).
Comunque.
Stavo con quei ragazi fino le tre, le quattro di mattina.
Stavamo in una bettolaccia. Arrivavano dei barboni, dei rifiuti della società (ricordo un medico radiato dall’album, un ex medico), degli zingari. Arrivava la ragazza di sedici anni che, a sedici anni, sembrava una stupenda venticinquenne. Era cresciuta in quei postacci, lei, ora, grazie al suo corpo da modella, passava le sue serate con uomini piedi di soldi e di voglie.
Quei ragazzi (ma per tanto tempo ho pensato “i miei ragazzi”) erano imbarazzati con lei. Da lei.
Oggi sono stata a Lugano, raccontò la prima volta che la vidi.
Silenzio assoluto: ma Lugano dov’è?
Il vino, in quel posto, costava pochissimo e non era male, la Moretti costava come al supermercato, il caffè faceva schifo.
Imparavo.
Quei delinquenti – parlo di quindicenni, di sedicenni – mi piacevano.
Ricordo una delle prime sere.
Un ragazzo, col cellulare, aveva chiesto dei soldi a un altro, che arrivò, seguito da altri due.
Gleli consegnò davanti a tutti, poi, nel silenzio più totale, si strinsero la mano.
Quella stretta di mani non era una stretta di mano borghese, Ciao come stai.
Era una promessa. Una stretta di mano tra piccoli uomini d’onore.
Mantenevano la parola data. Tra loro erano solidali. Quelli che ho conosciuto io non avrebbero mai violentato una ragazza o dato fastidio a un anziano.
Eppure loro erano nati violentati.

Io, però, in mezzo a loro ero un estraneo.
A volte mi riempio la bocca. Ho fatto del volontariato in carcere, ho passato due anni dell mia vita con questi ragazzi al confine.
Ma quando io ero con loro, benché cercassi di stare in disparte, di non farmi notare, ero comunque una presenza lontana di un mondo lontano.
Un borghese. Uno che stringe mani dicendo Come va?
Uno che, al mattino, quando si sveglia, non si sveglia in una casa umida, pregna di piatti da lavare calzini puzzolenti e di canne che mamma e papà si son fatti prima di andare a letto.
Questo ho pensato, leggendo l’intervista a Siti.
il libro lo voglio leggere con attenzione.

La borgata (o periferia più squallida) ha una grande contraddizione (ma non solo la borgata): non ha “voce propria” per raccontarsi.

Buon primo maggioPer la cinquecentesima volta ricordo che io ho scritto questa cosa qua. Di getto e di rabbia. E’ un omaggio: a quei ragazzi. Qualcuno non c’è più. Qualcuno, invece, ha saputo ribellarsi. Uno di loro, mesi fa, ha fatto un commento in questo blog. L’ho incorniciato quel commento.

16 pensieri su “voci di periferia

  1. Messer Vasari dicea che le opre d’Arte tanto più son belle quanto più son somiglianti al vero.
    Di fatto chi vide i suoi dipinti o affreschi sa che, più che al vero, si ispirò alle opere allo stile del suo amato maestro Michelangelo; il quale non rifaceva il vero, ma lo rimontava a suo gusto, tendenza e talento.
    Ora si sta rinnovando la voga che il “bello e il buono” (in narrativa) deve essere ispirato al vero, perché testimoniare, ridire il vero, o quel che ci sembra vero è bene, è impegnato, si cambia la realtà in meglio scrivendo del vero, o forse vende di più, o il mercato vuole così.
    E sono brutti segnali, per me, se ci si ricorda, sia del realismo socialista, sia della letteratura “impegnata” degli anni’50 e ’60; una caterva di opere dimenticate che “dovevano educare” le masse.
    Primo Levi diede la sua testimonianza, del suo “vero” non ortodosso, e fu subito castigato da chi sapeva come si scriveva secondo ortodossia.
    Però dopo qualche anno, se n’accorsero, i luminari, che la sua interpretazione del vero era personale e profondissima.
    Il vero, il reale è ‘na cosa;
    la narrativa, le arti, viaggiano su binari diversi, sono una interpretazione della realtà o realtà parallele e possono essere metafora, allegoria, simbolo, gioco, ironia et cetera.

  2. torno al mio post, lucia.
    ho detto che io non conosco le borgate romane.
    ho detto che forse ho vissuto un’espereineza di borgata anloga, al nord.
    dico anche che quella cosa – pubblicata solo in rete – la sento come una cosa “vera”, molto vera.
    ma ho anche pensato che quando io ero lì con quei ragazzi ero comunque percepito come una presenza estranea e quindi posso supporre che condizionavo il loro modo di essere e di esprimersi.
    solo questo.
    non ho detto che non si debba scrivere.
    anzi, il modo di scrivere di siti è, a mio avviso, serio.
    un po’ come lucarelli nel versante dei gialli.
    non è né un poliziotto né un rapinatore: ma si informa, e i suoi libri sono veri e falsi come vere e false sono tutte le opere d’arte.
    e i suoi libri mi piacciono.
    ciao lucia

  3. ma Remo una cosa è fare giornalismo un’altra è scrivere un romanzo o un racconto, certo che ognuno di noi ogni giorno torna alla propria realtà, vive la propria vita e non potrà mai vivere quella degli altri, se si dovesse scrivere (mi ripeto) solo di ciò che si conosce si scriverebbe soltanto la propria autobiografia. A volte (se uno scrittore è bravo)un libro e i suoi personaggi possono essere sentiti più veri delle persone reali questo perchè chi sa scrivere coglie nel profondo e rende universale sentimenti e sensazioni. Perchè chi scrive in questo modo è uno speciale interprete della vita e sa scegliere le giuste parole, quelle essenziali, quelle particolar, perchè la persona reale che la sta vivendo non potrebbe mai racontarla meglio. La parola chi la ama, soltanto chi la ama veramente la sa usare quando serve. Ed è attraverso la parola che uno scrittore dipinge l’uomo e il suo mondo. La parola che sa trasformarsi in coltello o piuma per raccontare il dolore, la gioia, la rabbia, l’impotenza e la potenza, la solitudine o la moltitudine, o il vuoto.
    Disse un grande scrittore di un suo libro “A volte un libro è più grande di noi” ed aveva ragione.
    Leggendo in giro mi rendo conto che forse oggi ciò che conta mi pare non sia tanto il libro ma chi lo ha scritto. Questo protagonismo è figlio evidente della nostra società, della televisione in particolar modo, Ma è un discorso troppo lungo per un commento perciò mi fermo qui e ti chiedo scusa per la lungaggine. Ciao Lucia

  4. elena,
    ricordo anche io un primo maggio, di sole, anni fa, a torino.
    sarò al salone domenica, da mezzogiorno e fino alla chiusura.
    ciao

    grazie titty:
    in fondo l’onestà intellettuale di siti sta proprio nell’uso dei registri.

  5. “Eppure loro erano nati violentati”.
    questa frase è un pugno allo stomaco. eppure.
    c’è un eppure che ci permette di pensare che non sia tutto scritto in un destino ineludibile. c’è uno spiraglio. una speranza come l’ha chiamata qualcuno. senza fare della psicologia spicciola o dell’inutile buonismo, credo sia maggiormente possibile “recuperare” certi soggetti, che non altri ragazzi “di buona famiglia” annoiati da sé stessi e dalla vita che taglieggiano i compagni di classe per puro divertimento, riprendono col telefonino, la compagna che ci sta (o la costringono a starci) nei cessi della scuola e via dicendo.

    intanto ti ringrazio per la citazione di quel lontano post.
    ieri ero in piazza. com’è diverso questo (questi ultimi a dire il vero) primo maggio da quello che ricordavo di me bambina. ci si legge la consapevolezza (non rassegnazione ma consapevolezza) di un qualcosa che non si è realizzato. e, in un certo senso, si fatica a crederlo.

    da ultimo: ci sarai in qualche momento al salone del libro e dintorni?

    ciao.

  6. Sono d’accordo con Remo, il punto non è raccontare realtà che possono non appartenerci, per quanto si possa viverle anche quotidianamente, e per un lungo periodo.
    Io credo che la differenza sia nel dire: io ho visto, io ho sentito, io ho raccontato. Tutto questo si può dire.
    E’ dire “io capisco”, che non è possibile per chi si sveglia al mattino in una realtà completamente diversa. Perchè è quello il punto: se non ci sei veramente dentro, non puoi capire.

  7. annalisa e gea
    infatti: a questi ragazzi manca qualcosa. In birreria, una sera, ne ho sentiti alcuni di buona famiglia che raccontavano d’essere stati a Praga. Testuale: sull’autobus, abbiamo fatto sentire a tutti come scoreggiano gli italiani.
    no, gea, ti sei spiegata benissimo.
    annalisa, ti parlo dei “miei” ragazzi, ora. anni prima in quel quartiere, dove c’è anche un campo nomadi, c’era un prete salesiano. che ha lasciato un segno. per esempio: ha bussato a tante porte finché non ha trovato lavoro a una ragazza sinti che voleva lavorare. e il suo era un oratorio aperto anche agli utlimi.
    poi se n’è andato, purtroppo.
    sempre in quel quartiere c’è un’altra chiesa. dove c’era un prete che non li voleva quei ragazzini di unidic, dodici anni, figli del disagio. e che televa separati i maschi dalla femmine.
    anche lui ha lasciato un segno. per quei ragazzi, i tamarri che ho conosciuto io, la chiesa è un luogo per tutti ma non per loro.

    lucia, ti ringrazio, così mi posso spiegare meglio.
    io mi ispiro, e imparo, da pasolini e siti.
    non ci fossero loro la borgata, le sue evoluzioni, le sue similitudini con gli altri quartieri, o differenze, non sarebbe stata descritta.
    meglio loro dei giornali, meglio loro dei trattati di sociologia.
    poi sia siti e pasolini sono scrittori che si sporcano le mani (uso il presente).
    vanno in borgata, tra rutti, bestemmie, gente coi denti cariati e il coltello in tasca, oppure gente che sembra un delinquente e che invece è meglio del tuo vicino di casa, vanno, insomma, e poi ne scrivono.
    e per me sono dei punti di riferimento.
    ma leggendo l’articolo del Venerdì ho pensato che comunque l’intellettuale, lo scrittore, l’assistente sociale di quel mondo non è parte.
    è comunque un intruso.
    imn primo luogo: la borgata “sa” che tu ti sveglierai in una casa riscaldata, “sa” che tu non sei un figlio di mignotta, “sa” che tu non hai gli stessi suoi problemi, gli stessi ritmi. e quando tu sei lì, e ne vuoi carpire i segreti, la borgata comunque ti percepisce come un elemento estraneo.
    ed è, questa, una sensazione che ho provato io, negli anni in cui ho fatto volontariato in carcere, o quando sono stato lì, tra quei ragazi difficili.
    certo tu ci capisci, ma domattina ti sveglierai in una casa riscaldata e non avrai i nostri stessi problemi.
    nessuno me l’ha mai detta questa frase, ma io è come se l’avessi sentita.
    ti dirò di più cara lucia.
    penso che siti, magari con dei distinguo, sia d’accordo con me.

    io, cara lucia, ho scritto di prostitute.
    viste, conosciute, anche apprezzate facendo il portiere di notte…
    le contraddizoni della scrittura: ma qui si rischia di aprire un capitolo infinito
    grazie lucia

  8. “Siti però, al mattino quando si sveglia si sveglia e non è in borgata. E’ in una casa elegante (suppongo), ben riscaldata, pulita.” Caro Remo questa frase e un po’ l’articolo in generale mi lascia un po’ così, come dire dubbiosa, nel senso che la vedo fuoriluogo, un po’ (mi sbaglio sicuramente) come un’accusa o come dire “non può parlare d disagio uno che vive in una casa elegante” ed è appunto questo che non condivido è come dire che puoi creare un personaggio che è un assassino, che puoi svilupparlo bene soltanto se sei un assassino. Lo scrittore non è tutto ciò che scrive, non può esserlo, questo non vuol dire che non sappia cogliere e rappresentare tutti i risvolti psicologici di un assassino, dipende tutto dallo sguardo che ha verso il mondo, dalla sensibilità, dalla conoscenza dei meccanismi di difesa o di offesa della persona umana, dallo studio di un certo tema, e anche dalla percezione della realtà. Non ho letto Siti e forse ho interpretato male le tue parole, nel tal caso mi scuso, buona giornata Lucia

  9. è illeggibile quello che ho scritto, sorry. vado di fretta ed è un argomento che mi sta molto a cuore.. :-(

  10. c’è anche un disagio nascosto, che nasce dall’ignoranza e dall’indifferenza di famiglie che dal disagio economico sono uscite, o non ci sono mai state, ma che sono totalmente assenti dal punto di vista educativo, e anche incapaci di amore. un disagio culturale, affettivo, di valori.
    un ragazzino che cresce senza limiti è un ragazzino insicuro e spaventato. se poi l’esempio che ha, anche nei confini della legalità ma moralmente e nella vita spicciola, è ”pago e cago”, se lui non essendo mai stato oggetto di empatia è totalmente incapace di mettersi nei panni degli altri e di aprirsi all’altro da sè, le conseguenze sono facilmente deducibili.
    anche se capisco che lo sconforto è grande, capisco che un’insegnante più di tanto non può fare, ma mi rifiuto di credere che a dieci anni siano tutti già irrecuperabili. e sogno un mondo, e una scuola, che riescano a produrre crepe nei muri in cui questi bambini si sono rifugiati, e a tender loro una mano.
    o alme no ci provino.

  11. @Remo: senti, magari dico una cosa stupida, ma quando hai dei ragazzini delle medie che davvero hanno a che fare con il disagio, scopri che sono quelli che più si lasciano dare una mano. Io non so se li recupero, con la mano che gli do, perché non vedo mai i risultati del mio lavoro. Quando sono appena un po’ cresciuti, se ne vanno, e amen. Quello che provoca indignazione, risentimento, è vedere ragazzi che non sono disagiati, non hanno una famiglia difficile alle spalle o niente famiglia, e si comportano come se vivessero sulla strada, e spesso, loro, sì, sono anche violenti (le violenze che si posson perpetrare in una scuoletta come la mia, e che spesso fanno male a chi le subisce tanto quanto le grandi violenze), e son irrispettosi e mai solidali.
    @Morgan: non volevo davvero far male, cioè, non ci ho pensato, è una cosa che mi è uscita così, quando ho letto quella frase di Remo. Perché trovo che il ragazzino della famiglia molto benestante, firmato dalla testa i piedi, tonto come pochi, ignorante come molti, incapace di usare del suo e dell’altrui tempo per migliorarsi minimamente (ché, tanto, mio papà c’ha un sacco di soldi), e, sopra il conto, anche provocatorio, cattivo verso i deboli, debole verso i vigliacchi, insomma, ‘sto ragazzino, se fosse sbattuto nel mondo di cui parlano Remo e Morgan, che farebbe?
    Indignazioni risentimenti ignoranza incapacità e ottusità erano i sentimenti che aleggiavano fino a due anni fa in una mia classe disastrata (ma non disagiata), così che tornavo a casa convinta che il mondo certo non sarebbe più stato salvato dai ragazzini.
    Ho cambiato classe, due anni fa, e ancora quest’anno: i problemi ci sono ancora, ci mancherebbe, ma le figurine che posso disegnare adesso sono meglio di quelle di due anni fa. Mi fanno arrabbiare, ma come fanno arrabbiare spesso i ragazzi. E mi fanno anche ridere.
    C’è, speranza.
    Credo.

  12. annalisa,
    io so che un conto la letteratura condita con la sociologia e un conto è averci a che fare con il disagio.
    voglio però dirti alcuni di quei ragazzi non aveva una famiglia dignitosa.
    il loro padre e la loro madre si chiamavano disagio.
    eppure, e io l’ho scritto e ne sono convinto, molti (o forse alcuni) di loro potrebbero essere recuperati.

    mario,
    io quella frase “la maggior parte degli uomini sono cattivi” la (man)tengo nel surgelatore.
    a volte, dipende dal tempo, la penso anche io.

  13. C’è qualcosa che non va,
    in questi giorni sento come una marea di pensieri assillante,
    un marea indistinta ch’è, più che altro,
    come una sensazione allo stomaco,
    un sordo rimestarsi di colpi accidie indignazioni risentimenti,
    e che ho, abbiamo sbagliato tutto nell’intepretar la vita degli umani,
    e ignoranza, incapacità e ottusità,
    vivendo in una sorta d’illusione di mondo tipo cartone animato,
    con figurine schematiche, sagome, schemi mentali ridotti,

    e invece il mondo è bastardo,
    e forse aveva sempre più ragione Biante di Priene quando incise a Delfi:
    “La maggior parte degli uomini sono cattivi”

    però ‘na speranza bisogna darla ed averla,
    e anche forte, anche la pietà, cristo!
    e la vostra prof, di sopra, non ha misercordia,
    e mi fa male,
    molto male

  14. C’è una frase che mi ha preoccupato, nel post: “Ragazzi che avevano imparato a spacciare a tredici anni perché la vita a loro aveva offerto solo quello”.
    Ecco, io sono in una scuola di piccola città, una buona e bella scuola, che ha tutto quello che si può avere oggi in una scuola senza troppi sostegni da parte dei governanti; che ha buone aule (forse piccole, oggi che le classi son diventate di 29,30 alunni, ma aule colorate, con armadi e grandi finestre); che ha molti buoni insegnanti, anche se io poi alcuni li prendo in giro; che ha l’aula di informatica (anche se con le ore tolte dalla riforma Moratti io non ci riesco più ad andare); che è inserita in un tessuto sociale (si dice così?) non degradato, con molti extracomunitari che riescono a vivere anche bene e degnamemte fuori di qui, e in compagnia degli altri dentro a scuola; eccetera eccetera.
    Niente scuse, quindi, per i ragazzini che, a tredici, quattordici anni, spacciano o girano con i coltelli per rubare anche solo una merenda, e la vita gli ha dato una famiglia magari modesta ma dignitosa, e possibilità e un tetto sicuro e la mensa tutti i giorni e persino il corso di nuoto gratuito a scuola.
    Niente scuse.
    O almeno io adesso non riesco a trovarne, per loro.

  15. grazie a te, morgan.
    grazie davvero

    sì, tra i poveracci che non hanno mai letto un libro e che sanno solo chi è Valentino Rossi, vedi della soliderietà che è inimmaginabile tra i buoni borghesi.
    vidi un ragazzo disperato, aveva appena acquisato un’auto usata, gli serviva per andare a lavorare in qualche cooperativa, fuori città.
    l’aveva presa, pagata niente (ma quel niente per lui era tanto), ed era da rottamare. quasi piangeva.
    gli si avvicinò un altro disperato, gli disse, sto per prendere una macchina io (usata naturalmente), invece di dar dentro la mia panda (una panda catorcio, naturalmente) faccio che dartela, tanto cosa vuoi, mi danno un milione…

  16. Ho letto con piacere questo post. Le borgate romane le vedo spesso, frequento anche persone delle borgate. Persone che pur vivendo a Roma pensano il centro della città lontano, ti dicono: – Che ci vai a fà ar centro?! -, quando mi è capitato di dire loro che là dovevo andare poi.
    Io: – Vado alla stazione Termini, sai, diamo una mano ai senzatetto con l’associazione -.
    – Siete bravi ragazzi, per fortuna noi c’avemo un tetto -.
    Ma dentro quelle case ho visto una povertà psichica, ripeto, psichica, che è né più né meno quella che vive (subisce) un senzatetto. Pochi strumenti di critica, poca cultura, tanta realtà cruda, tantissimi problemi di budget mensile. Unica soddisfazione quando vanno a fare la spesa al centro commerciale una volta al mese, quasi una conquista.
    Perché quando non ci sono soldi, nelle abitazioni povere di Roma, l’unica magra consolazione è mangiare in miglior modo rispetto al giorno precedente: una bistecchina più grande, uno yogurt per il bimbo. A volte si prende un paio di scarpe al mercato di Porta Portese a 10 euro, e allora è davvero festa.
    Il senso solidale di cui parli Remo lo vedo spesso anche qui. Proprio come scrivi te. C’è un disinteresse nell’aiutare l’altro che a volte mi lascia completamente spiazzato, disarmato.
    Un giorno un anziano dalla cera triste e di sicuro poverissimo, mi trovavo a Tor Bella Monaca, vedendo una bimba che piangeva perché mamma continuava a chiacchierare con un’amica, si è improvvisato inventore e le ha costruito alcuni aerei di carta con i giornale gratuiti riportandole il sorriso in pochi minuti. Quanti, in altre zone più, diciamo così, borghesi, l’avrebbero fatto?
    Vedo cose a volte facendo volontariato che stento a credere. Il sorriso dove ci sarebbe solo da piangere, la battuta dove ci sarebbe solo da disperarsi, l’abbraccio dove ci sarebbero tutti i motivi per farsi la guerra l’un l’altro.
    E, sia chiaro, non è tutto rose e fiorellini, ma quel SENSO di SOLIDARIETA’ c’è davvero, lo vedo spessissimo.
    Ci sono persone che non potevano scegliere, sorrido quando sento liquidare situazioni di degrado con “è stata una scelta sua”, no, non è tutto lì il nodo della questione, no.
    E nel mio piccolo cerco, quando incontro gente assai povera, di fare percepire loro due cose:
    1- Anche nelle difficoltà c’è un meno peggio che si può scegliere di cercare e attuare.
    2- Le difficoltà permettono di aiutare chi scopre dopo le medesime difficoltà.
    La saggezza è lì, nelle periferie della società, non nei palazzi del potere, fra i quadri di una grande azienda o fra chi ostenta una sicurezza pecuniaria che è, in sostanza, l’unica cosa di cui possono davvero andare fieri.
    Leggerò il libro Remo, non lo conoscevo. Grazie.

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