Avrò avuto tre, quattro anni. Ho un ricordo vago vago di quei giorni. Quando i miei genitori mi mandarono, per una ventina di giorni, dai miei nonni materni, a Cortona. Piccola parentesi: mia madre, che da ragazza votava Pci ma di nascosto perché il padrone non doveva saperlo, è una donna timorata di Dio. Va in chiesa, fa la comunione, è una credente insomma.
Non è stupida, mia madre. Quando venne a prendermi per riportarmi a casa, non disse nulla quando sentì che io, in quei venti giorni, avevo imparato soprattutto una cosa: a bestemmiare.
Mia madre pensò: lo lascio fare, faccio finta di niente, così smette, è meglio fare così coi bambini, spesso.
Io però ero un bambino insistente, un bambino rompicoglioni, insomma. Non mi chetai: continuai, per ore, a parlare intercalando madonne varie.
A un certo punto (qui il ricordo c’è, non è vago) sentii sulla faccia il bruciore noto (ma stavolta bruciava di più) di un ceffone, improvviso. Guardai mia madre, vidi che non sorrideva più, che aveva uno sguardo cattivo cattivo che non prometteva nulla di buono. Ero un bambino rompicoglioni ma anche sveglio, credo: perché capii, immediatamente, che di certe madonne era meglio che io mi dimenticassi.
Nei mesi scorsi ho scritto un libro. Che ha due possibili titoli, mi piaccion tutti e due. Vicolo del precipizio, oppure, altro titolo, Di bestemmie e folli amori.
L’ho inviato a una quindicina di case editrici, grandi, medie, piccole.
Tre (due medie, una piccola) mi han già risposto picche. Altre quattro mi hanno comunicato che sono in lettura.
Lo spunto per scrivere queste storie me l’ha dato lei, mia madre. Il quaderno di mia madre. Metti che qualcuno mi pubblichi e il libro esca con il titolo Di bestemmie e folli amori, lei, mia madre, come la prenderà?
Comunque: sul “quaderno di mia madre” nel settembre 2007 scrissi un post.
Odio i link, io, preferisco i taglia e incolla.
Eccolo, quel post.
Quando ero piccolo mi terrorizzava, bastava un suo sguardo.
Dovevo essere ordinato e puntualissimo: Se ti ho detto che devi tornare a casa per le sette, devi arrivare almeno con cinque minuti di anticipo.
A volte, questa mia dura madre, era esasperata: e ricorreva al battipanni.
Picchia, le dicevo, fingendo di non aver paura di lei; invece ne avevo, e mi sentivo solo e abbandonato quando non ero protetto dalla complicità di mio padre (ce n’erano anche per lui di rimbrotti).
Ha avuto una vita di inferno mia madre.
Di tanta povertà e di tanta, troppa, sensibilità.
Figlia di mezzadri, da piccola andava a “guardare le pecore”, oppure i maiali. Quando arrivava il momento di far festa, perché si ammazzava il maiale, lei scappava via, e piangeva. Di nascosto, sempre. Perché bisogna essere forti…
Dura, durissima madre.
Leggi e studia, leggi e studia, mi dicevi.
E non ti lamentare, mi dicevi sempre, ché c’è sempre chi sta peggio di noi.
E non ti lamentare se hai mal di pancia, “non fiezzare”, che non serve. Non serve piangere.
Non pianse, lei, quando le morì un figlio, mio fratello Fabrizio. Avevo sei anni. Non un lacrima ma poi, quando vide che la piccola bara bianca veniva ricoperta di terra nera, le gambe cedettero e fu sorretta da mio padre. Solo un attimo, ché si riprese, poi.
E non pianse nemmeno quando, solo due anni fa, perdette un secondo figlio. Nessuna lacrima: mai di fronte agli altri.
E poi ci sono io, vero mamma?, che ti ho fatto piangere tante volte. Anche negli anni scorsi…
Speravo che crescessi, ma non cresci mai, mi dici. Fortuna che hai avuto Silvia, la mia sorellina. Che ti ha inondato d’affetto.
Tu non hai famiglia, sei uno zingaraccio, mi dicevi, severa e adirata, quando ero piccolo.
(Ricordi quanta paura ti feci prendere quando, a sei anni, scappai di casa per ore e ore? Risento il tuo abbraccio, quando mi rivedesti).
Ora non è più una dura madre. E’ un madre mite.
Sono stata troppo dura con te, mi dice.
Mamma, sai che su un cosa che si chiama blog ho scritto di te, e dei cantastorie.
Non ha detto nulla, mia madre, mentre le dicevo “ho scritto di te”.
Giorni fa mi si presenta davanti. Con un bloc notes.
Mi dice: Lo sai che io non ho scuole e faccio gli sbagli.
Leggo.
Ci sono i canti che da ragazza aveva imparato.
Nel tempo che dei guelfi e ghibellini….
E ci sono storie contadine, d’amore e di povertà.
Ha fatto solo la terza elementare mia madre. I suoi genitori, analfabeti, la sgridavano: perché nel quaderno di matematica sprecava carta, c’erano troppi spazi bianchi tra un’operazione e un’altra.
Solo la terza elementare fatta nei giorni pari, perché in quelli dispari c’erano da guardare i maiali, ma, mentre leggo, vedo che i congiuntivi son giusti. Perché mia madre sapeva ascoltare “le belle parole della gente istruita”.
Basta orecchio, a volte.
basta orecchio sì. e la sensibilità. che quella mica la si impara a scuola.
credo che “di bestemmie e folli amori” sia più accattivante. e di ciò, per una eventuale pubblicazione, tocca tener conto. in bocca al lupo, remo. attendo di leggerlo
Quando ti leggo, mi dico che ho tante cose da imparare. Ma non me ne faccio un cruccio, imparare mi piace, così come mi piace credere nelle cose che imparo.
Penso a mia madre.
Nel mio primo libro ho parlato un pò di lei, così come di mia nonna Giuditta.
Le donne in una famiglia…sarebbe bello trovare il modo e il tempo per scrivere del ruolo delle donne nelle famiglie.
carloesse,
attendo delucidazioni dalla casa editrice; all’incirca un mese fa ho ricevuto la nota siae di 3mila copie di bastardo posto, null’altro.
A me i titoli piacciono molto entrambi. Si spera trovi un editore presto. Intanto si attende con ansia anche il tuo ‘Bastardo posto’, già annunciato, copertinato, ….e poi?
Eppure a me “Di bestemmie e folli amori” piace un gran tanto :-)
non so, mi sembra che commentare queste cose suoni come di bestemmia
è così netta, pulita, precisa l’immagine di questa mamma.
Ah, ma allora vuoi farmi dimolto male?!