16. http://www.solitudiniaffollate.com
di Cristina Vezzoli e Rossana Massa
Rita Rospo torna a casa dall’ufficio e s’infelpa, raggruppa i capelli sparnegati con la pinza e accende il pc in sala riassumendosi sulla poltroncina. Sua mamma mette sul gas una puzza che mangeranno in una cena televisiva trista e muta. Rita Rospo ha un’età indefinibile, un culo grande come la sua tristezza, una scorta di merendine da rifugio antiatomico e si sente un cesso incrostato, un cesso d’autogrill prima delle pulizie, per la precisione. Ha deciso di chiamarsi Stellinaluminosa e aprire un blog: tutto rosa camper di Barbie. Stasera la sua casella è desertica. C’è solo un messaggio di barzellette.it del solito Avvocato. Lui la crede bella e disperata e ha la malsana idea che mandarle cose copincollate serva a farla sentir meglio. Purtroppo, no.
Studio legale del centro. L’Avvocato Zizza ha appena sgarbato con la sua vocina stridula la zelante segretaria. Lei sta pensando che il suo capo è brutto, con una pancia flaccida, pelato e pure tirchio ma gli dice a denti stretti certavvocatozzzizza, sbatte le ciglia e gira i tacchi sottili, incazzata nera. Lui si chiude irritato nella sua stanza, rialza la finestra del laptop e schiaccia invio col dito grassoccio. Ha appena pubblicato sul suo blog dei versi palpitanti segretamente scritti per lei, Stellinaluminosa, la Donna che magari un giorno riuscirà ad incontrare. Trilla il cellulare: è la moglie che gli blatera corrosiva una requisitoria infinita. Ci mancava pure la secchina isterica, rimpicciolita dall’età che avanza. Sospira guardando il blog di Stellinaluminosa (amore mio). Oh, c’è un commento di ieri notte: è Mammastanca.
Mammastanca cinguetta sul blog dell’Avvocato Zizza, perché spera di fare colpo, è separata, sta perdendo il lavoro ed ha due bambini piccoli da mantenere. Cerca insomma una storia per sistemarsi e usa il blog per cuccare, visto che non può uscire la sera. L’Avvocato è uno che potrebbe tranquillamente permettersi un’amante di categoria Povera Donna Indifesa e Maltrattata (io ti salverò). E’ disperata e cinica e non crede più nell’amore, ha superato la soglia dei 40.Ha tanto sonno, è tardi, ma accende per inerzia il suo scassato computer. Apre la posta e trova un messaggio di Pino, uno che le sta dietro da mesi ed è buonissimo ma palloso. Sospetta fortemente che sia anche povero, non gli risponderà. L’hanno usata tutti, adesso è l’ora della rivalsa: tocca a lei.
Pino Poverino ha perso sua moglie tre anni fa, era sfatta e maleodorante e non la amava da decenni, ma la solitudine è ancora peggio che averla nel letto, la solitudine è una lama arrugginita e lui non ha fatto l’antitetanica. Vive di pensione, con un cagnolino qualsiasi, molti libri, tanti rimpianti e in totale solitudine perché è piuttosto timido e introverso. Ha un blog dove riversa fiumi di parole e conta circa quattrocento amici virtuali che non ha mai conosciuto. Non ci spera, manda lettere d’amore perché adora la gentilezza. Se Pino Poverino morisse qualcuno commenterebbe: ci sei? Poi pian piano le visite al blog finirebbero. Poi niente.
Uno dei quattrocento amici di Pino Poverino è Alterego Spurghi, una blogstar. E’ un ragazzotto sulla trentina, laureato, precario prima e disoccupato adesso. E’ depresso e non riesce a trovare lo slancio per trovare lavoro, sta tutto il giorno in internet dove ha aperto un blog di controinformazione giornalistica para professionale. Scrive bene e si sente un fallito perché sa di scrivere bene. Sul web appare come un uomo dai mille impegni, si vergogna a dover ammettere che il massimo sforzo che fa è andare al discount a fare scorta di bottiglie. Beve molto, Alterego. Accende il suo pc per non pensare che anche oggi non ha combinato niente e il suo talento si sta sciogliendo come ghiaccio nel suo gin scadente, ma sfoggia un avatar del Che e fomenta la rivoluzione sempiterna, paladino di tutti gli oppressi.
Lo scrittore PierMaria Ciccioli, invece, è un uomo di successo. Ha una vita intensa, anche se inquieta. Non scrive più perché ha perso da un sacco di tempo la vena creativa, ma ha trovato la soluzione. Copia dai blog e spaccia per sua la roba scritta da sfigati qualsiasi. Eccolo che entra nel suo studio: i tetti del centro storico lo distraggono, un ronzio d’aria condizionata precede il clic dell’accensione. Il notebook illumina d’azzurro il suo viso intriso di cultura e saggezza. Infila un cd e ascolta intenerito la vecchia melodia che gli ricorda la gioventù, gli anni difficili, gli inizi. Con fare sicuro copincolla la poesia dell’Avvocato, l’ultimo post di Pino, il commento di Mammastanca e la recensione di un romanzo che Alterego ha appena inserito nel suo blog. Li ammucchia in un documento word, fa un veloce editing e spedisce alla rivista prestigiosa, dove redige una celebre rubrica settimanale dal titolo “la solitudine dello scrittore”. Non guarda la posta, ha spento i suoi cellulari, si è raccomandato con la segretaria di non ricevere nessuno: non ha tempo per gli scocciatori. Oggi lavora.
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17. LA VOCE
di Cristina Bove e “Inbianco”
All’apparenza, una cosa decisamente sbilanciata. Era perplesso, ma aveva deciso di continuare, la faccenda avrebbe potuto anche diventare interessante. Lo svolgersi dei fatti, questo deve importare. Chissà lei come l’ha presa, dopotutto avrebbe anche potuto defilarsi, invece è qui che invia mail per tentare l’impresa.
– Caro Giacomo, con ogni probabilità ti stai chiedendo di chi diamine sia questo indirizzo e-mail. Probabilmente ti sarai anche chiesto se fosse conveniente aprirla o se qualche burlone ci avesse infilato dentro un virus (tranquillo, io non so nemmeno cosa sia un virus, a malapena conosco quelli intestinali), poi però (spero…) l’hai aperta e ora la stai leggendo. Mi stai leggendo. Non sai quanto mi emozioni saperlo; e se penso che potresti anche rispondermi…
Questa la prima mail di Veronica e lui si sorprese incuriosito: gli era stata abbinata in una gara di scrittura per un blog, avrebbero dovuto ideare un racconto insieme.
Sapeva che era di Firenze, che scriveva per un giornale locale, niente altro.
Lo chiamò per prima: una voce calda pronunciò il suo nome e lui se ne sentì immediatamente attratto.
-Giacomo?
-Hmm… ehm… sì?- (Ma come “sì?”? Ecco ho già fatto la figura dell’imbecille! Maledizione!)
-Ciao sono Veronica, quella della mail. Ti dispiace se ho chiamato?- (Spero di no…)
-Ah, Veronica! Sì. Cioè “sì”, avevo letto il tuo numero quindi “sì, sapevo che eri tu”, non “sì, mi dispiace che hai chiamato”! Eh eh…” (Ma che diavolo sto facendo? Stai calmo Giacomo, inspira; espira).
Stava farfugliando, la voce lo aveva attraversato come un brivido e lui si stava comportando come uno scolaretto.
Veronica proseguì con una serie di suggerimenti che lui accolse di buon grado.
Non aveva le idee molto chiare, ma forse nemmeno lei.
Riuscì a stento a comunicarle che era anche lui fiorentino, e che abitava a Fiesole.
Poi, dopo altre telefonata e altre mail, avevano deciso di vedersi per sveltire la stesura del racconto.
Il luogo dell’appuntamento era Piazza d’Ognissanti. Giacomo arrivò per primo. C’era vento e l’aria tradiva il carattere novembrino della giornata. Nuvoloni carichi di pioggia continuavano a muoversi inquieti e, insieme a loro, vorticavano pezzi di carta come tanti piccoli uccelli nel cielo di Firenze. Fece qualche giro attorno alla statua dell’Ercole poi optò per sedersi sulle spallette. L’aria gli scombinava i capelli e attraversava gli indumenti e dopo poco cominciò ad avvertire freddo. Era lì già da un quarto d’ora ma di Veronica nessun segno.
Sussultò alla sua voce, mentre lei gli veniva incontro, trafelata, alta e snella nella tuta nera, i capelli biondi al vento. Non si aspettava una donna così, forse sotto i cinquanta, veramente bella. Sensazione di panico: lo avrebbe trovato altrettanto gradevole?(che c’entra con il racconto da portare a termine?) pensò.
Si erano scambiati qualche idea, vicendevolmente incuriositi.
Poi, tra una mail e l’altra, si erano rivisti ancora, sempre al solito posto.
Questa sera il racconto, che si è snodato piacevolmente, volge al suo epilogo.
-Senti, Giacomo, fa freddo, io abito qui vicino, in via Montebello, una buona tazza di tè e ci mettiamo al lavoro, che ne dici?-
La casa era piccola ma accogliente; ogni cosa era al posto giusto, precisa, ordinata. Tutte le fotografie sembravano sistemate quasi a creare un quadro unico della famiglia che, gli era sembrato di capire, Veronica non aveva più. Lo aveva accennato in alcune mail, e ne aveva dedotto che vivesse da sola. Aveva perso il marito e via via tutti i parenti, lei non ne faceva un dramma ma Giacomo più ci pensava più coltivava il suo senso di colpa. Lui, con le sue stupide paure degli esami, paura del giudizio degli altri, paura di prendere l’autobus, guardava Veronica affrontare la solitudine, il dolore e si domandava dove trovasse la forza.
Fu incuriosito dalla foto di un ragazzo biondo somigliantissimo a Veronica.
Mentre assaporava degli ottimi biscotti, si aprì una porta. Il ragazzo della foto venne avanti dirigendo con le mani la sedia a rotelle: – Salve, sono Marcello.
Giacomo si sentì mancare…”quella” voce! La stessa di Veronica: ecco perché gli era vibrata dentro. Era la ”sua” voce , quella voce che lo aveva affascinato fin dal primo momento . Quella che aveva accompagnato le sue notti insonni, il suo amore.
– Io so… sono… Giacomo –
Marcello si accostò, le gambe si profilavano appena sotto un plaid, le braccia invece erano muscolose, e quando gli fu abbastanza vicino gliele tese.
Lui si chinò per farsi abbracciare mentre lo sentiva ripetere: perdonami, prima o poi te l’avrei detto.
Veronica era scomparsa. Giacomo aveva gli occhi lustri, non riusciva a capire se fosse più stupito o più felice.
Nella sua mente turbinavano pensieri, dubbi e domande ma l’abbraccio di Marcello metteva tutto a tacere. Sentiva il suo fiato caldo, le parole che assieme avevano adoperato scivolare tra di loro e riempire lo spazio del loro silenzio. Non solo un abbraccio dunque, piuttosto una promessa.
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18. RIFIUTO A OCCHI CHIUSI
di Marta Forno e Anna Maria Curci
« Mi rifiuto», continuava a ripetersi Maria Luce. Seduta scomodamente su una panca dello stanzone del commissariato, la testa appoggiata al muro, gli occhi chiusi per difendersi dalla luce al neon, era lì oramai da più di quattro ore.
Era stata fermata intorno a mezzanotte, in pieno centro storico, mentre rientrava a casa a piedi. Fermata: un eufemismo. Le era saltato addosso un uomo che urlava. « Puttana, ora te ne torni al tuo paese, con un calcio nel culo». L’uomo l’aveva immobilizzata, schiacciandola con violenza contro il muro, girandole con forza un polso dietro alla schiena e quasi soffocandola. Aveva perso i suoi braccialetti, le armille, come li chiamava. Gliele aveva strappate l’uomo, così come l’aveva derubata dei contanti, dell’orologio e dell’anello con lo zaffiro, regalo di laurea dei suoi genitori. Maria Luce aveva pensato a una rapina prima di uno stupro. Poi si era un po’ calmata quando aveva sentito l’uomo chiamare qualcuno con un walkie talkie. «Ondaronda a pattuglia, ne ho presa un’altra. Sono alla cattedrale». La pattuglia era arrivata, una vera pattuglia di polizia, per fortuna. Lei aveva subito iniziato a raccontare dell’aggressione allo spilungone in divisa, che invece di ascoltarla l’aveva ammanettata e spinta nel furgone. Dentro c’erano già alcune persone, uomini e donne silenziosi. Due ragazze in fondo piangevano. Pochi minuti dopo erano stati tutti sbarcati al commissariato. Neanche il tempo di chiedere che cosa stesse succedendo o di parlare con qualcuno. Erano stati tolti loro borse e cellulari, poi via, tutti rinchiusi nello stanzone. In tutto erano ventitré e venivano convocati uno per volta, circa uno all’ora. Maria Luce pensava che a quel ritmo avrebbero finito la sera successiva.
Tutto le appariva incredibile e assurdo. Non aveva altro da fare che pensare. E poi l’aggressione era stata così violenta che quegli attimi le tornavano in mente senza sosta. L’uomo aveva detto qualcosa sul suo abbigliamento, qualcosa del tipo «troia, vestita come una grandissima troia». Già, il suo abbigliamento. Maria Luce recitava in una compagnia amatoriale e quella sera era andata in teatro già con l’abito di scena: camicia trasparente e scollata con ampi volant, pantaloni aderenti e al ginocchio, scarpe con il tacco alto. Era ancora truccata e i capelli ricci e rossi attiravano gli sguardi. Ecco, forse quell’uomo si riferiva al suo abbigliamento… ma come mai non le aveva dato modo di spiegarsi? Non l’aveva neanche ascoltata. E poi perché insultarla? Perché derubarla? L’anello era stato l’ultimo regalo di suo padre, che aveva fatto appena in tempo a vederla laureata, ma non in cattedra, insegnante di lettere al liceo, né in scena con la compagnia, né alle sedute del consiglio comunale per la tutela del parco. Impresa solitaria anche quella, una battaglia vinta per la quale si era concessa l’ennesima armilla.
Maria Luce si guardò intorno. Accanto a lei sedevano le due ragazze. Non piangevano più e una accettò di scambiare qualche parola. Si chiamava Estrella, era argentina ed era venuta in Italia, da dove erano emigrati i suoi nonni, a terminare gli studi universitari. Durante l’arresto era stata schiaffeggiata violentemente. Vicino a Estrella, Maria Luce se ne accorse solo allora, c’era un bel ragazzo sui 25 anni. Armeggiava con una parrucca e aveva resti di trucco sul volto. Darko! Era stato un suo studente, uno speciale. Darko abitava al campo nomadi. Del suo diploma a pieni voti aveva scritto il giornale per il quale ora lavorava, cronaca. Darko si mise a ridere: «Ohi prof, era ora che mi riconoscessi!».
«Ma che ci fai qui, vestito come un viado brasiliano? E poi che cosa sta succedendo, lo sai tu?».
«Servizio sulla prostituzione transessuale. Estrella mi fa da interprete, spagnolo e portoghese. Ci hanno arrestato quelli dell’Ondaronda, il nuovo servizio d’ordine municipale. Tranquilla, prof, il commissario è una brava persona e ci lasceranno subito uscire. Beh, almeno appena riescono a chiarire l’equivoco, così poi lei mi spiega come è finita qui».
Chiarire, spiegare. Maria Luce non riusciva più a tenere gli occhi aperti. Però continuava a rifiutarsi e con gli occhi chiusi a sognare giustizia su quella panca del commissariato.
Qualche tempo dopo, Manlio Brambilla, quello dell’Ondaronda che aveva arrestato lei e gli altri, fu condannato in primo grado per furto, ricettazione, violenza privata, lesioni e altro. Era stata proprio lei a denunciarlo. Mesi prima Brambilla aveva dovuto cedere l’attività commerciale. Troppo da fare con le ronde per gestire la macelleria che il suocero gli aveva ceduto. La moglie lo aveva piantato per un idraulico senegalese, gran lavoratore. Per risarcire Maria Luce e altre vittime, Brambilla aveva dovuto svendere la casa e ora abitava in una comunità alloggio gestita dal municipio. Ondaronda era stata disciolta e il sindaco di allora era sparito nel nulla dopo lo scandalo.
Maria Luce, ad occhi chiusi, giocava con la sua nuova armilla.
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19. SALUTI DA RIMINI
di Francesca E. Magni e Andrea Blasina
La strada è un filo che porta a Daniela. Un filo matto che scorre da una spola capricciosa all’orizzonte, rapido e poi lento, teso in rettilineo e ritorto in curve, deviazioni, ponti; ricolorato da ritmi di ombra e luce e nuvole e sottopassaggi. Oggi Beppe è una molecola rossa nei flussi sanguigni delle strade d’Italia. Non – smettere – oraaaa e poi ripete la chitarra con la bocca na na naaaaa, ancora una sigaretta. Mischia come un chimico esperto l’odore di nuovo dell’auto al fumo sbuffato. Si guida a dirotto, per andare a Pescara. Strisce d’arancio le lascia la pioggia battuta dal sole – ideale resistenza auto nuova provo ben gommata la frenata. Pescaraaaa… Beppe è consapevole di ogni momento di contatto fra i dadi del battistrada e l’asfalto, e distingue quei suoni leggeri dal ritmo del motore. Un po’ più veloce. Trecento metri con la marcia calata, il motore che canta più forte, passare i due tir. Ha detto vederci stasera per cena, e ancora vedo la costa. Pelle sedili pelle le sedici valvole e la pellicina trasparente dal video del navigatore. Che matto. La Clio rossa. Dài sbrigati vieni presto. Matto è chiedere i soldi ad Andrea, così almeno la cena l’abbiamo. Matto è passare così la macchina lunga d’argento, farsi suonare dietro. Saperlo fare, ecco, solo saperlo fare.
Mi hanno telefonato. Il filo da loro a me in fibra ottica, veloce, definitivo. “Onda Verde” segnala 12 Km di coda dovuta a quella parola. Quella parola che risuona dura nel mio sterno e non tace.
Avevo prenotato a Fermo, c’era anche il mercatino dell’Antiquariato. Sbaglio i tempi: il mercatino c’è, è lui che è passato. È passato. Come passano i tir.
Agosto freddo che spezza l’Italia in due, quella di sopra e di prima e quella ferma qui, per sempre. Io non so se lo odiavo come odio il rosso delle macchine, o come quello del sangue. Gli avevo detto gli avevo detto tutto, no non gli avevo detto niente. «Mi sento diversa, non so se voglio vederti». Il mare è così calmo che sembra d’asfalto. Alla radio c’è una canzone di Rino Gaetano che dice «cogli la mia rosa di niente».
La strada è un filo che adesso si allarga si allaga e rallenta. Frecce doppie. Paletta rossa. Nel mare d’asfalto, esplosa, la macchina rossa. Donna alta col prendisole le ciabatte rattrappita su un cellulare guarda per terra seria. Molecole in moto. Paletta verde, rosso l’accendisigari di notte. Fuma, Beppe, e mormora na na naaa e pensa saltata la cena – ed ecco già via il rosso strappato la Clio scialacquata all’asfalto – mi sa che ora taglio per Fermo.
Daniela non parla con i morti, ma è lì che guarda Beppe. Lì davanti a lei, senza quella maledetta sigaretta. E anche se fosse vivo, che cosa gli avrebbe detto? Che conoscerlo la sera prima a Rimini era stato come un risveglio, che già il mattino dopo era scappata a casa dandosi dell’irresponsabile, che non si deve fare così, senza pensare se non a correre…
Beppe la guarda, ma attraverso i suoi occhi Daniela tace.
Non è male il ristorante macrobiotico, una volta ogni tanto. Daniela fissa Beppe fumare e ogni intenzione svanisce. Fa fresco a Fermo. Attraverso lo specchio alla parete si annoda un’altra storia fatta di ombre, come in un incubo di morte. Nel locale, in sottofondo c’è una melodia orientale, completamente stonata. Ma i due sono già fuori, sulla terrazza, ad aspettare le stelle cadenti.
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20. IL MORTO DEL MERCOLEDI’
di Morena Fanti e Paolo Zardi
“È il morto di ieri?”
“Sì.”
“Testimoni?”
“Nessuno.”
“Indizi?”
“Una ripresa della telecamera interna. Le solite immagini sgranate. Ombre che si muovono. E non si vede il fatto. Solo l’uomo a terra.”
Rimasero in silenzio. Uno dei due girava alcuni fogli tra le mani; l’altro si avvicinò e sbirciò quelle carte da sopra la sua spalla.
“Nessun documento in tasca. Non sappiamo neppure chi è.”
“Non aveva niente con sé. Nessun documento. Ma si capisce che non è italiano: ha la pelle scura ed è circonciso. Marocco, Tunisia. Un magrebino. O qualcosa del genere.”
“Causa del decesso?”
“Emorragia cerebrale. Perforazione di un polmone. Spappolamento del fegato. Una di queste tre.”
L’altro rimase in silenzio.
“Si sono accaniti. Ha tutte e due gli avambracci spezzati: cercava di proteggersi il volto. Gli hanno tirato calci fino a che gli hanno rotto le braccia e poi gli hanno sfondato la faccia.”
“Ma non era alla fermata della metropolitana? Come è possibile ammazzare di botte qualcuno in una metro?”
“Non lo so, Mauri’. È successo così, come succede tutto in questo paese.”
“E nessuno è intervenuto?”
“Nessuno, Mauri’. Le telecamere interne della metropolitana mostrano solo questo tizio che si trascina a quattro zampe. Poi crolla con un sussulto, vomita, si gira su un fianco. E basta. Morto.”
Silvio si alzò e si avvicinò alla finestra; l’aprì, inspirò un boccone d’aria, guardò giù.
“Ecco, guarda laggiù. Li vedi? Sono tutti rumeni, albanesi e marocchini. Stanno lì a fare niente: fumano e bevono birra. Guardano le ragazze e fanno commenti. Non c’è da meravigliarsi se la gente non interviene quando qualcuno gli mena.” Si girò verso il collega e poi riprese a parlare: “Magari era uno di quelli e sono stati proprio loro a farlo fuori. Un regolamento di conti.”
“Il che significa che possiamo chiudere il fascicolo, portarlo dal magistrato e dirgli che non arriveremo mai ad individuare i colpevoli. E neanche la vittima.”
“Neanche la vittima. Ma non è un problema. Se un cane morde un uomo non fa notizia. Figurati quando i cani si azzannano tra di loro.”
Silvio sbadigliò. Fame. O noia. Maurizio si avvicinò al tavolo, sfogliando i fogli che lo ricoprivano.
“Cosa cerchi?”
“Il CD. Voglio vedere le riprese delle telecamere.”
Silvio si spostò dalla finestra, si sedette e armeggiò sui tasti del portatile. Aprì la cartella Omicidi. E poi il file “metro.mpg”.
“Alza un po’ il volume” disse Maurizio, girando attorno al tavolo per mettersi alle sue spalle.
“Non c’è audio.”
“Non si vede quasi niente.”
“Qui è qualche minuto prima. La gente sta aspettando che arrivi la metro. Qualcuno – ecco, la signora con il vestito bianco – indica nella direzione opposta ai binari.”
“Si stanno agitando.”
“Forse vedevano l’aggressione. Ecco, ora c’è lui che si trascina mentre quelli scappano. Eccolo a terra. Adesso arriva la metro. Guarda la gente che esce: vedi come si biforcano quando escono? Sembra che ci sia una merda per terra, che tutti cercano di non pestare.”
“Eccolo, il nostro morto di ieri! Tenta di alzarsi ma non riesce.”
“Credo che qui sia a malapena cosciente. Sta cercando di scappare, ma non ce la fa. Guarda l’orologio: tra tre minuti smetterà di vivere.”
Maurizio ebbe un brivido, anche se quella creatura barcollante era già morta.
“Arriva gente, ma nessuno si avvicina. Questa ragazza si porta le mani davanti alla bocca. Ma guarda adesso: prende il cellulare e fa una foto!” Silvio sembrò divertito dal particolare.
“Cazzo, nessuno muove un dito!”
“Nessuno, Mauri’. Nessuno.”
Poco dopo, assistettero al crollo, al sussulto, al vomito, all’immobilità. Arrivò un altro convoglio; altra gente uscì evitando il corpo. Quindici secondi dopo, c’era solo il profilo di un uomo disteso a terra, immerso nella penombra. Da questa parte del video, rimasero entrambi in silenzio.
La porta si aprì di colpo, ed entrò Gigliozzi.
“Dotto’, di là c’è la moglie del morto di lunedì. La faccio passare?”
“Ma di che parli, Gigliozzi? Quale moglie del morto?” Silvio reagiva sempre in modo brusco alle interruzioni.
“La moglie di… non so dire il nome, dotto’.”
La faccenda si presentava male e Silvio si stava innervosendo. Maurizio intervenne in soccorso di Gigliozzi.
“Silvio, scusa, è quel marocchino, Nabil Benhaya, che è stato aggredito a piazza Navona. Quello che è morto dopo il ricovero. Frattura cranio, nessun testimone.”
“Come hai detto? Nassir? Bendir? Cazzo, hanno tutti dei nomi impossibili… Ha ragione Gigliozzi: chiamiamoli con il giorno in cui vengono ammazzati. Il morto del lunedì, il morto del martedì ecc ecc.”
Silvio sorrise soddisfatto della soluzione; ma il sorriso si spense per un pensiero improvviso: “Eh, ma se ne uccidono due in un giorno?”
Ci pensò su un istante; poi riprese a sorridere e annuì soddisfatto “… li chiameremo con un numero progressivo: morto del lunedì uno, morto del lunedì due…”.
Altra pausa. Sguardo pensieroso. E poi Silvio riprese: “Che giorno è oggi?”
“Giovedì.”
“Ottimo”, si alzò dalla sedia, prese la cartellina in mano e aggiunse: “e ora, portiamo il “morto del mercoledì” al magistrato.”
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21. CONSEGUENZE NON MEDIATICHE DELLA VISITA UFFICIALE DI MUHAMAR GHEDDAFI IN ITALIA
di Maria Lucia Riccioli e Andrea Blasina
Italia. Portava quel nome come una fusciacca colorata a coprire i fianchi, e a volte come un’eredità non ricusabile e molesta. Chiamarsi Italia ha un senso diverso se si postano addosso segni e suoni di un battesimo lontano. L’Asmara, 1954. Diversa complessità, chiamarsi Italia: diverso era stato vedere calare i fianchi, appesantirli, sotto quella fusciacca colorata.
Italia sente oggi il peso di quel bambino che ha sentito chiamare Mario, o Neghev da un amico, e in queste notti feroci lo ha sentito tremare di freddo. Non sempre lo vede, l’onda di mani e bocche lo sommerge senza dargli calore, e i parenti che deve avere con sé sono mani e bocche indifferenti fra altre bocche e mani. Mario non aveva mai visto il mare, e anche ora lo guarda solo quando deve consegnargli il fiotto di vomito acido, breve. Vomitare è un lusso riservato a chi mangia.
«Prof posso andare alla macchinetta?». Mara non è stata sicuramente attenta, quando il nutrizionista ha parlato di junk food: non vede l’ora di comprare un po’ di schifezze da sgranocchiare sotto il banco.
«Sto spiegando, nel caso non te ne fossi accorta. Esci al cambio dell’ora, o aspetta la ricreazione».
Mara sbuffa, si risiede e finge di ascoltare quella pallosissima pappardella sullo sbarco dei Mille. Italia… patria… unità… le parole arrivano appena all’ultimo banco, dove le più scafate – o le meno sgamate – riescono a nascondere il filo dell’i-pod.
L’uomo di Asmara è stato in piedi vicino a Neghev – «Mario, mi chiamo Mario» – il ragazzo con la mano alla bocca. L’anziano ha spiegato i venti, i loro nomi, e i misteri delle correnti. Come una bolla di ritmo e saggezza nella corrente, nel fracasso del motore a due tempi, nel dolore.
Dalla Sicilia la marcia dei Mille risale per l’Italia… Napoli… diplomazia… gli Inglesi, Cavour… Aspromonte… Obbedisco…
La spiegazione fiotta stancamente fino alla campana salvifica delle undici. Vaffanculo Garibaldi: bagno, panino, messaggino allo zito.
Questa bonaccia incantesima Italia, Mario e tutti gli altri. Cielo e mare sono lo stesso umido impasto che appiccica i corpi ai vestiti, la braccia alle braccia, pensieri a pensieri. Fradici. Appesantiti.
«Un capitolo intero è pesante, ava’, prof…». L’insegnante di storia segna le pagine sul registro di classe. È stanca e quasi afona. Insieme al pacchetto delle mentine tira fuori dalla borsa il giornale che ha appena scorso prima di entrare in classe, oppressa dal pensiero delle interrogazioni, del programma che s’ha da fare, delle strategie didattiche che valgono quanto quelle militari.
Inizia a leggere la cronaca, quella spicciola e quella politica. Si ferma a ogni capoverso. «Che vuol dire globalizzazione? Sai cos’è il liberismo? Colonizzazione… Mara, delocalizzazione. Intercultura».
Parla di banche. Risparmiatori in rovina. Torna alla storia, alla Banca Romana, alla bancarotta del patriottismo, alla delusione per un’Italia che si sperava diversa e che è venuta quella che è ancora adesso, a pensarsela se la Sicilia è Italia o no, figuriamoci gli extracomunitari. Fuori. Ma fuori da cosa?
Le undici, dappertutto in Italia. Le undici sul ventre di Italia, sulla pelle dei dannati, sulle immagini sacre e i rosari di nove religioni diverse, sul fetore. Le undici in classe significano ancora dieci minuti con la profe di storia, poi fumare baciarsi mangiare rimangiare ribaciarsi e fumare.
Le undici a Roma, sotto la tenda bianca.
Il Ministro si allontana, si finge interessato ai doni di Stato (il cofanetto di cedro cela discreto un coupon, una settimana, due persone, resort Stella della Sirte). L’uomo coi capelli corti si avvicina al tavolo e parla brevemente col suo omologo libico. Il colore di pelle non è importante, se si hanno gli stessi Rayban e identici occhi d’acciaio dietro. Si spartiscono il cuore d’Italia. Servizi, cooperazione, coordinate geografiche, duecentoquindici anime che vomitano bile sulla panza d’Italia, immagine, coordinate geografiche. Candeggina sui giornali del mattino. Alle tre, dappertutto in Italia, Mara e la profe si incrociano da Talelli che è di turno. Gli antibiotici della profe restano quelli sbagliati, e il test di gravidanza continuerà a dare due righe, anche al secondo tentativo. Alle tre e dieci le corvette libiche sono già dirette al porto militare. Silenzio radio e ancora sul mare un’eco di raffiche siluri grida. Certi lavori durano poco ma durano troppo. La mano di Neghev – ma lo chiamo Marco – non ha più una bocca a cui velare il conato. Afferra, mozzata, il seno metallico di Italia – Italia promessa, Italia volontà, Italia 2500 dollari dati via sulla battigia – la lamiera rugginosa orgogliosa di bianco che recita «ITALIA».
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22. PACCO A RENDERE
di Rita Zaghi e Silvia Ancordi
La osservo mettere le bustine di tè nero al bergamotto nella teiera di acqua bollente poi, con il viso sereno quasi sorridente, dispone i biscotti al cioccolato su un piatto: la sola presenza di Cecilia mi infonde tranquillità e sicurezza, da sempre.
“E’ ora di passare al tè freddo” dice sorridendo mentre appoggia sul tavolo le tazze di porcellana con un fiore blu stilizzato e aggiunge: “Allora, com’è andato quest’anno scolastico?”
“Son contenta, è finito” rispondo.
“Elisa, hai terminato anche la specializzazione, vedrai che ora entri in ruolo” dice mettendo sul tavolo teiera e biscotti.
“Già, sono dieci anni che me lo dici” abbozzo un sorriso alzando appena l’angolo destro della bocca e allungo subito una mano per consolarmi con un biscotto ma, un istante prima di addentarlo, le chiedo: “E tu, sei contenta sia finito l’anno?”
“Sì, è stato un anno particolarmente faticoso, pieno di cambiamenti. Ora ci aspetta una meritata vacanza” dice sorridendo.
Mentre mi racconta le ultime novità, giocherella con la collana di perle come se stesse inseguendo altri pensieri.
“Tutto bene?”
“Veramente sono molto preoccupata per Max, il bambino moldavo” risponde corrugando la fronte con l’espressione cupa che ben conosco: è la faccia con cui affronta da sempre le mille sfide della scuola che cambia.
Il bambino moldavo è l’ultimo della sua particolare classe di affetti, prima c’è stato Matteo, poi Riccardo, prima ancora Giuseppe. Tutti con una storia pesante, tutti da salvare.
“Scusa se te lo chiedo, ma ci sei riuscita qualche volta?” butto la domanda d’un fiato.
“A fare che?”
“A salvarli dal loro destino, non è per quello che hai l’espressione così corrucciata?”
“Non l’ho mai scoperto, ma l’ho sperato tanto, come spero con Max.”
“Mi hai accennato qualcosa tempo fa poi non ne hai più fatta parola. Pensavo avessi risolto. T’invidio sai? Io non riesco a gestire la mia vita così precaria, figurati preoccuparmi degli altri!” confesso.
Lei torna per un attimo a sorridere ma di nuovo si perde nei suoi pensieri.
Suona il telefono di casa con uno squillo da perforare i timpani, Cecilia appoggia la tazza al piattino e risponde in tutta fretta: non mi va di origliare ma sento il nome di Viviana, la mediatrice culturale che segue alcuni casi a scuola.
Mentre io verso dell’altro the nella preziosa tazza e prendo l’ennesimo biscotto, lei si sposta nell’altra stanza, alternando frasi brevi come “Davvero…Ma cosa mi racconti!…Cose da non credere” a lunghe pause di silenzio e l’andirivieni dei tacchi sul parquet ha sostituito il più silenzioso gioco con il filo di perle: in tanti anni che la conosco, è la prima volta che la vedo così in apprensione per uno dei suoi bambini da salvare. La mediatrice familiare mi ha descritto Max come uno scricciolo di capelli biondi, occhi scuri e arti come le zampe di un piccolo ragnetto. Dice che ci vuole determinazione e sacrificio per avvicinarlo, ottenerne la fiducia, e lei non lo aveva ancora sfiorato. I genitori adottivi non possono avere figli propri e l’hanno accolto come un dono. Hanno cercato in ogni modo di trovare un punto d’incontro ma lui dorme, dorme sempre e da sveglio aggredisce e morde i compagni, poi la sera scappa per le strade deserte. E’ impensabile avvicinarsi al suo cuore, chiuso dentro lo scrigno di vetro di una sofferenza spalmata fra l’orfanatrofio e la nuova famiglia. Mi ha fatto presente che il suo essere diverso, lontano dalle abitudini della sua nuova casa, rischia di farne un pacco a rendere, da riportare al mittente.
La vedo rientrare sempre più pensierosa, vorrei chiederle se va tutto bene, ma c’è qualche cosa nel suo modo di fare che mi frena.
Si rimette a sorseggiare il tè, e guardandomi negli occhi mi chiede quando mi sposo.
“Seee, sposarsi, sarebbe meraviglioso, ma mancano i soldi”.
Le racconto i mille dubbi che ho, ma lei mi interrompe e sorridendo afferma:
“Rischiare va bene, alla tua età. Hai energia e forza” ma forse sta pensando ancora alla telefonata.
“E tu, fiera neo-divorziata, hai ancora il coraggio di rischiare?” domando.
“Almeno potrò dire di aver vissuto e amato. Non mi pento di nulla” dice Cecilia abbozzando un sorriso. La voce al megafono di un ambulante entra prepotente nella cucina. Cecilia si alza per chiudere la portafinestra spingendo con il piede la porta, gioca un po’ con la maniglia dorata difettosa che non ne vuole sapere di isolarci da quel trambusto.
“Mi chiedo che lavoro avranno questi ombrellai e duplicatori di chiavi in estate!”
Mentre lei si risiede, decido di rischiare e domano a bruciapelo:
“Che succede? La telefonata, tutto bene?”
Sospira e dice: “Ora non potrò fare nulla. Era la Preside: l’ha chiamata Viviana dicendo che Max se ne andrà domani. Lo porteranno al Centro e dopo, forse, in Moldavia”.
“Mi dispiace!” il silenzio che segue è interrotto solo dal tintinnio del cucchiaino.
“Cecilia, allora dove andrai in agosto?” spero di spostare il discorso verso spiagge più tranquille.
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23. ADULTI SI NASCE
di Melania Ceccarelli e “Noncorrere”
Affrontare impegni, responsabilità. Diventare autosufficienti, maturi, uscire da uno stato di minorità, di perpetua infanzia e poi di adolescenza e poi di post-adolescenza e di post-post-adolescenza. Uscire di casa.
Nell’Italia di oggi un lui e una lei affrontano il problema in maniera diversa…
Ecco, ricomincia. Anselmo si siede sul letto. Sempre la stessa storia. Ormai è da un po’ che ci riflette, tutte le sere, più o meno alla stessa ora, (Anselmo è un tipo preciso e riflessivo). Basta, basta è ora che io prenda una decisione, sono i pensieri e le parole di Anselmo. Devo andare via di casa, devo andare a vivere da solo.
Nella sua immaginazione “andare via di casa” è come una porta che si spalanca su un campo di biondo grano, c’è un cielo azzurro, è primavera, la musica di Rocky; Anselmo corre tra le spighe di grano anche se ogni tanto si deve fermare perché ha il fiatone.
Insomma, gli si è sempre prospettata nel pensiero quest’impresa magnifica, e nelle sue fantasie, attorniata di una luce strana, diversa, una luce un po’ eroica e se vogliamo anche erotica, perché cavolo, vai a vivere da solo e pensa te – così ragiona Anselmo – quali straordinarie avventure possono capitarti, non devi dare giustificazioni a nessuno, sei libero, free as a bird, una donna diversa ogni sera, dopotutto lui è un trentenne dal fascino regolare, gli possono capitare un sacco di cose piacevoli. Certo, l’aria di casa forse i primi tempi gli mancherà (si dice) ma sul piatto della bilancia stanno delle motivazioni più che valide per mettere in atto il suo proposito. Certo, non è mai stato lontano di casa per più di due settimane, due settimane e mezzo al massimo (si dice), ma abituarsi ad essere autonomo e indipendente non dev’essere una cosa così difficile se lo fanno i norvegesi, con tutto il rispetto per i norvegesi ci mancherebbe, si adatterà, che ci vuole. Certo, dovrà imparare ad usare la lavatrice, e così pure a stirarsi la roba, e cucinare, magari i primi tempi andrà a mangiare a casa, anzi no ma che dico (è sempre Anselmo che parla con se stesso) così mantengo una dipendenza, free as a bird, certo che rinunciare alla lasagna sarà dura ma ce la farò, ce la farò si dice Anselmo. E poi la sera metterò la musica a tutto spiano, potrò girare in mutande per casa, mettere i piedi sul tavolo se mi va, quando mi va. Magari troverò pure un lavoro, sarebbe la volta buona, e mi sistemo. E mentre lo dice, è sopraggiunto il sonno, magari domani ci ripenso bene bene e vedo cosa fare e così spegne la luce, la testa sul cuscino, al buio, Anselmo si addormenta.
La cosa complicata fu dire ai suoi che si trasferiva a Roma. A Roma? Da sola? Ma sei sicura? Questo suo padre. Ma come farai? Non avrai tempo per cucinare, pulire, fare la spesa… questa sua madre. E i soldi?, entrambi. Fatta una lista di tutti di dubbi e spuntati uno a uno in un pomeriggio estivo piuttosto estenuante per tutti i tre membri della famiglia, Anselma iniziò a cercare casa. Dissolvenza. Non si può raccontare che cosa furono quelle tre settimane di vampa estiva durante le quali lei prendeva un trenino la mattina presto e lo riprendeva la sera tardi avendo visitato nell’intervallo quattro o cinque case di quelle dove non avrebbe messo a dormire nemmeno il suo cane Pluto – coi nomi non aveva mai avuto molta fantasia. Con la forza della volontà e, soprattutto, con la promessa di un’integrazione mensile all’affitto da parte di suo padre, riuscì a trovare un bilocale, molto carino e molto lontano dal luogo di lavoro. Calcolando, tra metropolitane e autobus per essere in ufficio alle otto avrebbe dovuto alzarsi alle sei. Ce la poteva fare.
Non ce la faceva, invece, ad accettare le stoviglie e la biancheria che arrivavano direttamente dai regali del matrimonio di suo padre e sua madre e che, automaticamente, a sentire quest’ ultima, sarebbero dovuti diventare parte del suo corredo. Corredo rimanda a matrimonio, a cose stabili, fisse e durature. Corredo, quello che sua nonna le aveva messo insieme fin da quando lei era piccola, comprando lenzuola ed asciugamani come se, da grande, fosse dovuto andare in sposa ad un principe.
Non ti piacciono le cose che ti voglio regalare? chiedeva sua madre, ansiosa. Oddio!, pensava lei, le tazzine non erano bellissime, però gli anni settanta erano anche tornati di moda e, insomma, non era quello. Il fatto era che Elisa voleva la sua prima casa cominciando da zero, e dentro ci voleva cose che sceglieva lei e solo lei, senza nemmeno il fardello delle tazzine. Ad un certo punto suo padre le fece gentilmente notare che se accettava i soldi poteva anche accettare le tazzine e le lenzuola e la discussione fu chiusa lì.
Insomma, questi due ci hanno provato ad uscire dal loro stato di minorità. Magari con esiti forse non esaltanti. Però, che si siano impegnati: almeno questo glielo dobbiamo riconoscere.
Poi, certo, piacerebbe a tutti che arrivassero dei risultati tangibili, concreti, che la vita…
La vita è una cosa seria.
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24. PASSAGGIO EPOCALE
di Alessandro Sampietro e Massimo Bignardi
Seduto sulla tazza del cesso mi arrivano dalla stanza a fianco i toni sempre più alti della voce del Bravo Presentatore. E me li vedo, mio padre, mia madre, i loro amici coi figli, raccolti intorno al caminetto elettronico.
Sulla parete, a due spanne dal mio naso, seguo con lo sguardo ogni venatura del legno perdersi in circonvoluzioni, fino ad implodere nel buio di un nodo. Così i miei pensieri. Una volta no, una volta le feste, qualsiasi festa, erano la mia festa. Tutto aveva un senso compiuto. Quando mangiare il pollo allo spiedo e le meringhe alla panna, guardare in TV Carloconti ed Antonellaclerici, ricevere i regali, qualsiasi regalo, era tutto ciò che potevo desiderare.
Mi alzo, trascinando la gamba sinistra, intorpidita per la posizione ed avvicino il termosifone elettrico, affinché riscaldi me e, magari, anche questa schifosa serata. Perché io, di tanti anni passati, ricordo solo feste bellissime. Ricordo che riuscivo a desiderare intensamente un certo tipo di modellino Supercar o una particolare confezione di Gormiti fino a ritrovarmeli di fronte il giorno del compleanno. Non ricordo però quando tutto ha iniziato a cambiare. So soltanto che tutti hanno sempre più spesso sbagliato i regali con me, e poi, io non sono più capace di desiderare intensamente qualcosa.
In questo momento potrei, forse, desiderare di essere inghiottito dal turbine dello sciacquone ed essere trasportato a qualche centinaio di chilometri da qui. Qui, dove, nella stanza a fianco, il sonoro del televisore ha raggiunto il suo apice di starnazzamenti e nonostante ciò è sovrastato a tratti dalla voce di mia madre che invoca il mio nome:
– ALESSIO! E’ quasi mezzanotte!
E me li vedo quelli di la’. I timpani oramai perforati da qualche centinaio di decibel, prodotti, in barba alle leggi della fisica, dall’unico altoparlantino da dieci Watt del portatile, che distorce la voce, ormai inutile, di Amadeus. Me li vedo, gli sguardi inebetiti, puntati sull’orologio in sovrimpressione che scandisce il passaggio epocale dal nulla del 2008 al niente del 2009 ed i calici ancora vuoti, ma pronti, nelle mani destre, meno uno, speranzoso, nella mano sinistra di mio padre: il mio.
Qualcuno bussa alla porta. Sentendomi braccato, apro e scavalco la finestra, risalgo la scala esterna dello chalet e rientro dalla finestra della mia camera, dimenticata aperta. Dentro la temperatura, ma finalmente anche il silenzio, si avvicinano a quelli del bosco di fronte a casa.
Cazzo quanto aveva ragione il Bollo a dirmi che una settimana in montagna coi miei mi avrebbe sfrantumato i gemelli e che senza le sue pastigliette miracolose mi sarei trasformato in uno yeti, o diceva uno zombie, insomma in una specie di zombie delle nevi. Recupero le magiche in fondo allo zaino e mi calo uno Scoop mentre mi collego col PC, che in questo inutile paese almeno la chiavetta prende.
Sul monitor l’immagine della farfalla gialla sta roteando attorno ad un asse virtuale e le serie alfanumeriche che la circondano fanno il loro lavoro ipnogeno. Entro nel sito dove potrò ritrovare Elsita con un avatar di tutto rispetto: per il nostro incontro mi presenterò con un magnifico paio di morbide ali blu notte, che mi avvolgono dalle spalle alle caviglie. Chiedo al computer di trovare la sua essenza all’interno del sito, con il comando /whereis Fata_ArtElsa lanciato attraverso il motore di ricerca. Questa volta viene individuata e subito chiedo una conversazione privata con lei. Elsita mi appare come l’ultima volta, circondata come me da un paio di ali che danno l’impressione di due teli di seta gialla. Quanto mi sei mancata. Elsita mi riconosce subito, un sorriso le addolcisce il volto. Quante volte ti ho cercata. Ma non ci diciamo niente, finchè dopo aver volteggiato random un tempo indefinito, le nostre proiezioni virtuali riescono a baciarsi.
Solo pochi secondi ed avverto un cambiamento, dentro di me. L’immagine dell’avatar lentamente si sfoca, assieme alla proiezione visiva di tutto ciò che lo circonda. Le immagini si sgranano, si confondono, con i pixel che si riducono di numero, ingrandendosi. Ma non è solo la vista a tradirmi, in questo momento. Un larsen mi tappa le orecchie e tutto comincia a girarmi intorno. Mi sento stanchissimo, ora. Sarebbe così bello dormire un poco.
Invece qualche fottutissimo essere umano si affaccia nella stanza:
– Alessio sei qui? Stai bene?
– E’ nel letto, si deve essere addormentato davanti al computer.
Benissimo, mia madre si è trascinata su la madre di Giulia. Giusto un po’ di sputtanamento per iniziare bene l’anno.
– Il mio bambino. Non si è neanche goduto i fuochi d’artificio.
– L’anno scorso si erano divertiti così tanto con Giulia e con gli altri.
– E’ da ottobre, da quando va al liceo che si è chiuso così. Sarà una cotta.
– Dai, lasciamolo dormire, andiamo giù che chiedo qualcosa a Giulia.
Apro di scatto un occhio dietro al gomito e incrocio il suo sguardo, che diventa quello di chi ha appena visto un marziano.
Sarebbe cosi bello dormire un poco.
25. PARADISO PERDUTO
di e.l.e.n.a e bobboti
Il sole non si è ancora alzato, dentro la fabbrica c’è buio pesto. Antonio continua a rigirarsi sulla branda senza riuscire a riprendere sonno. L’aria è immobile. Questi ultimi giorni di luglio sono tremendi.
“Sei sveglio?” chiede, con un filo di voce.
Corrado non risponde. Allora Antonio si alza sui gomiti e con l’accendino illumina il viso del compagno. Per alcuni secondi, ne osserva le palpebre chiuse, i movimenti degli occhi sotto la pelle.
Più tardi mi racconterà le meraviglie con Maria, pensa, ormai posso vederne anche i sogni.
Poi, cercando di non fare rumore, si mette dritto e si dirige a tentoni verso il reparto tessitura. Va a sbattere su un telaio, ma riesce, ugualmente, a trovare il fornellino da campo. Lo accende e ci sistema sopra la caffettiera che ha preparato la sera prima.
Sorride, Antonio, al pensiero della semplicità del suo amico. Si conoscono da tanto di quel tempo che i venti giorni di occupazione hanno aggiunto ben poco alla loro amicizia. Hanno lavorato per quasi trent’anni in quella fabbrica, un telaio affianco all’altro. Negli ultimi tempi, con le macchine spente, hanno parlato un po’ di più, soprattutto la notte, sulle brande. Ma non si sono confidati niente di nuovo. Niente che già non sapessero l’uno dell’altro.
Il caffè viene su con un gorgoglìo più forte del solito. Anche il profumo sembra più intenso. L’oscurità e la quiete amplificano i sensi.
Dopo aver vuotato la tazzina, Antonio si arrotola una sigaretta e con la prima aspirata guarda verso una vetrata del capannone. Un raggio di luce comincia a filtrare.
“Potevi aspettarmi!”.
La voce di Corrado lo coglie di sorpresa.
“E’ ancora caldo, ma se vuoi lo rifaccio”.
“Va bene così”.
“Ci metto un minuto”.
“No, è meglio che mi risvegli subito”.
Antonio rimane in silenzio, finché il compagno non consuma tutta la sua dose di caffè.
“Non c’era Maria anche stanotte? Non siete andati a rotolarvi vicino al fiume?”.
“No” risponde in un grugnito. “Non ho sognato niente. Non mi ricordo niente”.
C’è una luce scura al fondo degli occhi di Corrado che guardano un punto lontano.
“Anche Maria mi ha lasciato…”
Lo sguardo è un sorriso amaro verso Antonio.
“Ma che ti metti a pensare… hai solo dormito male”.
“Non so. Quel niente mi spaventa”.
“Ma se a te non ha mai fatto paura nulla. Su, dai, mettiamoci al lavoro. Dobbiamo preparare l’assemblea. Vengono anche i responsabili regionali del sindacato. Ripartiremo con la produzione, andremo in autogestione. Questa volta, vedrai che qualcosa succede”.
Corrado si stringe nelle spalle e scuote leggermente testa, come a voler dire che la presenza dei capi non è affatto una garanzia. Ma non dice niente, non vuole svilire l’ottimismo dell’altro.
Antonio capisce. Lo commuove il riguardo del compagno.
Rimangono così, ognuno immerso nei propri pensieri, riordinando l’angolo di reparto che hanno adibito a cucina e, per tutto il tempo, non si scambiano una parola.
Finché Antonio non decide che è il momento di allestire lo spazio per la riunione.
Nel salone della filatura hanno costruito un palchetto con le casse di legno che servono al trasporto delle rocche. Vi sistemano sopra un tavolo, un megafono e quattro sedie per i relatori. Corrado srotola uno striscione di tela e lo stende per terra. Con un pennarello dà un ultimo ritocco alla scritta.
“E’ una bella frase” dice Antonio.
“Me l’ha suggerita Andrea, il delegato giovane. E’uno in gamba”.
“Sì, è il migliore”.
“Avercene”.
Quando finiscono di attaccare anche l’ultimo lembo di stoffa alla parete, scendono dalle sedie con cauta agilità. Entrambi affondano le mani nelle tasche dei pantaloni e controllano che tutto sia a posto.
“Va bene, mi sembra”.
“Sì, manca solo una bottiglia d’acqua, la mettiamo quando arrivano”.
“Stanno arrivando, ascolta…”.
Un rumore di motori giunge dalla strada, ancora in lontananza. Quando si fa più vicino, Antonio stringe per un polso Corrado.
“Ci siamo”.
Lo sguardo di Corrado è limpido, adesso. Gli occhi, in quel volto antico, sembrano quelli di un ragazzino. Si abbracciano, come due amici che si stanno salutando alla stazione.
Alle otto e cinque minuti, la prima ruspa spinge la benna contro la parete del lato nord. Le altre si accaniscono sul tetto di uno dei capannoni.
E’ pomeriggio inoltrato, quando l’ispettore Rondoni arriva sul posto. Un sole cocente riverbera sbieco sulle macerie della vecchia Texal, la fabbrica chiusa da anni che lascerà finalmente il posto al nuovo centro commerciale. Sporco di polvere e accaldato, arriva a fatica vicino ai corpi senza vita. La Scientifica ha già terminato i rilievi. Rondoni si chiede come mai due persone anziane siano venute propri lì e abbiano scelto quello strano modo di farla finita. Pensa alla depressione, alla solitudine che diventa insopportabile con l’avanzare degli anni, a chissà che gli sarà passato per la testa.
A quello striscione rosso, che parla di operai e di paradiso, non ci vuole proprio pensare. E’ una frase senza senso, una sfida inutile, con il caldo che fa.
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26. D.O.C. Denominazione di Origine Controllata
di Davide Rabbia e Daniele Granieri
D.O.C. Denominazione di Origine Controllata
Quando vide l’indice tremante premere il grilletto, Amir ebbe il tempo di scegliere come ordinare gli eventi in quel famoso ‘istante’ prima di morire in cui tutta la vita ti passa davanti.
Si sorprese di come quella frase che aveva sentito ripetere centinaia di volte, buffa e inverosimile, fosse vera. Una frazione di secondo per rivivere trent’anni.
Rivide la propria sagoma oscura scivolare sul pavimento, lo stesso su cui ora si trovava disteso, e fermarsi a metà della stanza.
– Mi devi pagare! – erano state le sue parole.
Davanti a lui, chino su dei fogli, stava un ometto in maniche di camicia. Magrissimo e dal cipiglio testardo. Un fiotto di capelli sudati gli colava sulla fronte mettendo in mostra il cranio arrossato dal caldo. Contava a voce alta, torturando coi denti il fondo di una matita.
Quarantadue gradi, diceva un elegante ufficiale dell’aeronautica alla tv.
– Gaetano, mi devi pagare! – ripeté l’ombra nera, immobile.
Amir sapeva aspettare. Aveva imparato attraversando il Mediterraneo.
Erano partiti dalla Libia in duecento, stipati su una bagnarola di legni marci, carichi solo di disperazione, e il mare li aveva accolti in malo modo, come fosse stanco di sentire storie tutte uguali. Onde alte e corrente feroce, il vento che seccava ogni speranza.
Amir non riusciva a smettere di fissare gli sguardi terrorizzati dei compagni di viaggio e di pensare che non ce l’avrebbero mai fatta. Avevano tutti troppa paura. Ce n’era così tanta intorno che sarebbe bastata anche per lui, si era detto mentre stava aggrappato a vomitare la sua fame da una balaustra arrugginita. Allora aveva deciso che sarebbe stato meglio aspettare. Senza pensare a niente, facendo finta di non avere paura. Aspettare che il tempo cambiasse, che la barca arrivasse a destinazione o che qualcuno li soccorresse. Il terrore e le preghiere non servivano a nulla. Il mare, come l’uomo, non conosce pietà.
Così, infine, era successo che un pattugliatore della Marina Militare Italiana li aveva intercettati e scortati fino a un’isola grande come un morso di pane, dove erano stati curati e imprigionati e dove aveva nuovamente cominciato ad aspettare l’occasione buona per fuggire.
Gaetano era stata la sua salvezza. Gli aveva procurato un lavoro e un posto dove stare: un lavoro duro e mal pagato, la schiena rotta dalla fatica e un materasso marcio dove dormire. Ma almeno era di un passo più lontano dal luogo da cui fuggiva.
Nella stanza non si muoveva un refolo d’aria. Neanche gli insetti si azzardavano a entrare in quella fornace.
L’unico rumore era lo strisciare del lapis sulla carta, lo svolgersi delle cifre in colonna.
Quando Gaetano alzò lo sguardo dai suoi fogli, svelò un ghigno tagliente come quello di una iena. I bei tratti ancora si distinguevano dietro la maschera di rughe e sudore. Doveva essere stato un bel giovane, prima che le preoccupazioni dell’azienda agricola di famiglia lo facessero invecchiare e rinsecchire prematuramente, come accadeva ai suoi pomodori quando prendevano troppo sole e troppo caldo.
– Vediamo cosa posso fare per te – disse senza più distogliere lo sguardo dalle braci di Amir.
Al telegiornale, il Presidente della Repubblica annunciava avvilito che il pacchetto sicurezza diventava legge. La bandiera alle sue spalle sembrò sbiadire, come di vergogna.
Sul viso di Gaetano comparve un moto impercettibile di maligna soddisfazione, quindi estrasse qualche banconota dal cassetto, poche decine di euro, e porgendole disse con fastidio:
– Ecco quanto ti spetta.
Amir gettò uno sguardo ai soldi ma non li raccolse.
– Non sono abbastanza. Non è quello che mi hai dato la scorsa settimana.
– Eh, ma la scorsa settimana era diverso.
– Io ho fatto lo stesso lavoro.
– Ma quando l’avevamo stabilito, tu non eri un criminale. Eri solo un negro – ghignò l’ometto.
Amir non capiva.
Non era un ladro. Aveva attraversato metà mondo alla ricerca di un modo per sopravvivere e ora lavorava. Sì, qualche pomodoro se l’era mangiato per vincere la sete di quelle giornate estenuanti di raccolta, ma non aveva mai rubato.
– E ora vattene se non vuoi che ti denunci – disse infine Gaetano, quasi ridendo. Finalmente quei negri non avrebbero più accampato pretese. Finalmente era libero di trattarli come meritavano.
Così aveva rimesso la mano nel cassetto, ma non per dargli gli altri soldi che gli spettavano.
Sul corpo di Amir il rosso del sangue si mischiava con quello dei pomodori.
Gaetano si aggiustò i capelli: non riusciva a spiegarsi come era potuto partire quel maledetto colpo. Teneva sempre la sicura inserita.
“Volevo solo minacciarlo. Ma poi lui ha reagito e mi sono spaventato”, provò a giustificarsi. Il cuore debole ancora gli batteva in gola. “Non avrebbe dovuto accampare pretese assurde”.
Fissò a lungo le forme che il sangue assumeva allargandosi sul pavimento.
– Ora somiglia un ventaglio cinese – si disse sorridendo.
Poi chiamò la polizia.
Non disse che c’era un morto. Disse solo che voleva denunciare un caso di immigrazione clandestina.
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27. SEMPRE LA SOLITA STORIA
di Chiara Granocchia e Lorenzo Mazzoni
Una precisazione: queste righe nascono dalla necessità di rispondere al vile attacco verso il Paese perpetuato a opera di Beppe Pazzinovi. Vorremmo dire, prima di tutto, che quanto affermato nelle sue recenti dichiarazioni non corrisponde minimamente a verità: non sono sussistite irregolarità e intimidazioni alla popolazione durante lo svolgimento delle ultime elezioni. Dunque Pazzinovi deve smetterla di chiederne la nullità e di ostinarsi, giorno dopo giorno, a minare la stabilità della Nazione accusando la classe dirigente del Governo di efferatezze e prepotenze a danno del popolo italiano. Sempre la solita storia. È infatti noto che Pazzinovi farcisce i suoi discorsi di menzogne utilizzando quella retorica comunista con cui sono soliti esprimersi i nemici dello Stato, coloro che operano per far precipitare l’Italia nell’anarchia e nella confusione. La verità è che il gruppo di sovversivi, di cui Pazzinovi fa parte, appoggia l’invasione del suolo nazionale a opera di torme di stranieri senza scrupoli, che cercano rifugio tra le nostre terre dopo essere stati ripudiati dalle loro, e vorrebbe far credere che i gruppi di Milizia volontaria per la sicurezza nazionale rappresentino un’usurpazione della libertà. Questo gruppuscolo di eversivi vorrebbe eguagliare in diritti, ma non in doveri, gli appartenenti a religioni destabilizzanti, incitando all’odio razziale verso gli italiani cristiani e cattolici, e si applica per infangare il nome e l’onore nonché la memoria del nostro Paese e della sua storia secolare. Per questo l’opposizione fomenta le infanganti dicerie sul Capo del Governo attribuendogli una condotta non corretta. Non vogliamo qui soffermarci sulle ridicole voci che questi signori e i loro amici della stampa estera stanno cercando di far circolare e che non sono degne di minima considerazione. È più importante ribadire che il cittadino italiano non deve e non può credere alle irresponsabili accuse lanciate contro le leggi approvate da questo Governo per la riforma elettorale, la sicurezza del Paese, la sua ripresa economica, lo sviluppo, l’apertura alla modernizzazione dei trasporti, del sistema sanitario, dell’istruzione, per la lotta alla malavita, all’anarchia. Pazzinovi, che osa definirsi “democratico e socialista”, continua a insinuare che il nostro Governo sarebbe capace di atti di violenza contro l’opposizione e contro i falsi testimoni assoldati da questa e lo accusa di orientare l’opinione pubblica per ottenerne il consenso manipolando i mezzi di comunicazione. Tutto questo proprio quando l’Italia, dopo anni di incertezza e di lotte intestine, si trova finalmente tra le salde mani di chi saprà traghettarla oltre le difficoltà economiche e politiche promuovendo la conciliazione delle forze sociali, finalizzata allo sviluppo della produzione, e ponendo ai vertici dei valori la Nazione e lo Stato. Ricordiamo che il Capo del Governo è stato scelto da una maggioranza schiacciante di italiani. Quando prese la decisione di scendere in campo fu indistintamente seguito, da nord a sud, come un nuovo unto del Signore da tutta la cittadinanza che aspettava una forza capace di prendere le redini di questa Nazione. Le opere già attuate dal Governo, che i suoi nemici accusano di essere atti fittizi di mera propaganda, stanno a testimonianza di quanto gli stia a cuore il benessere di tutti gli italiani. E quando gli oppositori affermano che il potenziamento delle nostre milizie implichi un desiderio guerrafondaio, mentono sapendo di mentire. Tale potenziamento, infatti, è solo preventivo. Ma la destabilizzazione del Paese non passa solo attraverso le accuse e le menzogne. Essa si manifesta anche nelle insane proposte di considerare uguali persone che vivono nell’illecito e nell’immoralità accusando proprio di ciò la nostra classe politica, sfruttando la virile prestanza e la naturale galanteria di chi ci rappresenta. Ma noi non ci stiamo. E l’indignazione che ci invade davanti a certi scritti, massicciamente distribuiti alla popolazione e che potrebbero farla cadere in errore, ci ha condotto a impugnare la penna per smascherare i nemici dello Stato. Primo fra tutti quel Pazzinovi che sia dagli scanni del Parlamento che dalle colonne dei fogliacci comunisti attenta alla dignità del Paese. Il deputato faccia attenzione alle persone con cui si accompagna. Riveda le sue posizioni prima di cadere vittima delle sue stesse malsane alleanze. Apra gli occhi e riconosca di essere stato strumentalizzato da forze estere che mirano al controllo del Paese. Personalmente non abbiamo nulla contro il deputato Pazzinovi che reputiamo vittima della propaganda sovversiva bolscevica. Di questi tempi, in cui l’Italia si sta rialzando dopo essere stata duramente colpita, è ancora più impellente la necessità di unire le nostre forze per ricostruire.
Onorevole Mario Farinata di Roma, membro della Federazione Nazionale Fascista, Responsabile delle Comunicazioni e della Propaganda, 6 giugno 1924
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28. DA PADRE IN FIGLIO
di Mitia Chiarin e Giuseppe Guidotti
Che se potessi chiudendo gli occhi tornare indietro, figlio mio, io vedrei ancora questa campagna come tu non la vedrai mai. Ed è questo che mi fa rabbia. Anche se io ora non la vedo, ho del mio passato un ricordo di qualcosa che tu non potrai mai avere. Adesso che ai padri e ai figli non si danno più le stesse possibilità non si danno nemmeno gli stessi ricordi che bene o male io, mio padre e mio nonno avevamo. Quello che sono la materia stessa dei ricordi: i sapori, i profumi ed i colori che la campagna qui a Mestre aveva.
Io vedo chiaro nei miei ricordi quelle icone che sono rimaste indelebili nella memoria collettiva di anni che non torneranno, come non torneranno neanche i nostri ma che sono convinto che chi li ha vissuti li rimpianga un po’ di più di quanto tu non rimpianga i tuoi, Giovanni.
Vedo ancora tua mamma con i suoi capelli rossi e ondulati. Anche se lei la vedo sempre, ogni momento, soprattutto quando vedo te. I tuoi capelli ed i tuoi occhi sono belli come i suoi.
Vedo la mia bicicletta con il freno davanti rotto e quello dietro allentato che mi costringeva a frenare sempre con le scarpe. Vedo le mie scarpe bucate sul tacco perché consumate. Vedo gli schiaffi di mio padre forti e a mano aperta. Mano da contadino, pesante come una bestemmia in chiesa.
Vedo le chiese sempre aperte, sempre con le stesse persone. Ora che mi concentro vedo anche la signora Antonietta sempre in ginocchio sull’altare della chiesa. E’ stata li per mesi immobile dopo che è morto suo marito e per anni non ha avuto altra vita oltre alla chiesa dove è morta da li a poco.
Vedo la mia prima macchina, era bianca. Mi ricordo, l’ammaccai la prima sera che la presi per uscire con gli amici. Contro un muretto. Mi ricordo che era un graffio da poco, un bollo che neanche si vedeva ma piansi per tutta la notte maledicendo il cielo e me stesso che, per quella macchina, avevo lavorato i campi per un anno intero dopo scuola.
Vedo il mio paese che sembrava non avere paura, nella sua immobilità era tranquillo. Non temeva di stare fermo perché questo in un certo senso lo proteggeva. Mentre il resto d’Italia tremava scosso dalla paura, dalla rabbia e dal fischio delle bombe noi qui stavamo fermi, immobili e zitti. Come se niente stesse succedendo. Permettendoci di vivere tranquilli, come piaceva a noi. I ricordi del mondo sono ricordi in bianco e nero della televisione, ricordo Berlinguer e Moro, ricordo Platinì e Bearzot.
Vedi, Giovanni quello che non ti posso dire di tutto questo è quello che sentivo in quei momenti alla tv. Quello che sentivo guardando tua madre o la mia macchina nuova. Il sapore del pane non te lo posso raccontare, i colori ed i profumi che non puoi neanche immaginare.
Questo è il mio di ricordo, ed ora dimmi tu cosa immagini invece del tuo futuro.
Il mio futuro, papa’? Non so vederlo, mi pare che i miei sogni siano solo enormi fantasie irrealizzabili.
Lavoro al supermercato d’estate e da Aldo alla carrozzeria d’inverno. Solo contratti a termine. O accetti o resti a casa. Sei ore al giorno di lavoro al market a sistemar scatoloni e se ti iscrivi al sindacato mica ti riprendono. Quindi niente tutela, ci si arrangia faticando sei ore al giorno per 900 euro al mese, e si confida nel favore del capo, che è lui che decide se resti o no. Sono un lavoratore a termine e mi pare che anche la mia felicita’ abbia la scadenza impressa sul retro.
C’ho le rate della macchina nuova da pagare, c’ho le rate del mutuo della casa. Cosa vedo nel mio futuro? Un sacco di debiti da pagare. Se Elena non lavorasse pure lei, il mio stipendio non basterebbe. Leggevo l’altro giorno sul giornale che la mia generazione è la prima che non ha un tenore di vita piu’ alto di quello dei padri. Ed è vero, papa’, te la passavi meglio tu. E quando sento i vecchi dire che una volta si stava meglio, do loro ragione. Non sono solo discorsi da nostalgici. No stavolta e’ proprio così.
Lo dice anche Aldo ogni volta che ci ritroviamo al bar a bere: i nostri genitori hanno avuto delle possibilita’ di cambiare la loro vita. Noi, no. Siamo una generazione precaria e di conseguenza la nostra vita è precaria. E pensare che Aldo è padrone di una carrozzeria ma teme di dover chiudere anche lui perchè i soldi non gli bastano. Mai.
Anche il pane, cavoli, il profumo del pane all’olio che mi comperavi quando ero piccolo – te lo ricordi? – adesso non c’è piu’. La spesa la faccio al supermercato dove lavoro, il pane che porto a casa è di produzione industriale. La frutta e la verdura arrivano dalla serra, e non san di niente. Li mangio e mi pare che la mia vita sia insapore. Anche Mestre non è piu’ la stessa. E’ una citta’ adesso e non sta mica ferma. Sembra immobile ma è un continuo movimento, di traffici. Migliaia di camion passano di qui ogni giorno, molti viaggiano pure vuoti perchè conviene. A chi? Non a noi che abitiamo a due passi dalla tangenziale e ci respiriamo ogni giorno le polveri sottili. Ma adesso non abbiamo neanche la possibilita’ di lamentarci. Perchè adesso la tangenziale è mezza vuota visto che hanno costruito un’altra autostrada, ancora piu’ grande che si è mangiata la campagna, quella dove tu andavi a lavorare per comperarti la tua prima macchina. Insomma tra citta’ e campagna oggi si e’ in democrazia, si sta male ovunque.
Mi dici, papa’, di raccontarti il mio futuro. Io vorrei meno asfalto e piu’ campagna, vorrei guardarmi attorno e ritrovare le tracce della mia infanzia, cancellate dalla corsa alle costruzioni. Vorrei lavorare con la possibilita’ di progredire senza umiliarmi, vorrei non esser schiavo dei soldi. Vorrei aver colori e sapori da raccontare a mio figlio.
Vorrei avere ricordi e non solo pensieri.
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29. TOMAS, SENZ’ACCA
di Roberta Bianchin e Allerta
Benvenuto in questo mondo di merda. E benvenuto in quest’Italia del cazzo.
Tutti sorridono mentre ti prendo dalle braccia di tua madre per darti una lavata sommaria e già mi guardi con occhi accusatori. No, non ti voglio privare dell’amore che meriti. Sono solo poco più di un’infermiera, devo fare il mio mestiere. Tra poco tu, neonato, farai il tuo. Succhierai amore da quella donna per i prossimi
trent’anni, come minimo, e poco mancherà se toccherai i quaranta prima di andartene di casa.
Non è più come una volta.
La gente oggi non lavora, studia. La gente oggi non suda, compra condizionatori a tasso zero e case a mutuo agevolato. Lo sai cos’è un mutuo agevolato?
Tuo padre sorride, è sudato e stanco, manco t’avesse sparato fuori lui. Tua madre piange lacrime mute condite da un sorriso ebete, ma la capisco, povera ragazza.
Non avrà più di vent’anni, non ha un lavoro ma fuori dalla sala parto, proprio là dove si accalcano i parenti e gli amici con le macchinette digitali e i cellulari pronti allo scatto, c’è ad attenderla un set completo: carrozzina, fasciatoio e tutto il resto. Comprato a meno di mille euro, un affarone.
E ora che fai, piangi? Frigna, ragazzino, frigna. In fondo fai bene.
Sono convinta che già hai capito tutto, e non mi sento minimamente in colpa di averti parlato di mutui agevolati proprio nel tuo primo giorno di vita.
Sono una vecchia ostetrica lungimirante. Non ho mai avuto figli e, nello stesso tempo, ho partorito migliaia di volte.
Facendo una media di un neonato al giorno, in quasi trentasei anni di lavoro ho sentito il primo respiro di più di tredicimila persone.
Molti sono ormai adulti: guidano tram, consegnano posta, cantano in televisione, vendono droga o insegnano italiano.
Li incontro ogni giorno per strada. I nostri sguardi s’incrociano, magari sull’ascensore di questo stesso ospedale, senza la minima traccia di gratitudine o speranza.
É nato, non mi sembra ancora vero. Dopo tutti questi mesi, senza contare il pancione con l’estate più calda degli ultimi 200 anni, l’ho sentito dire ieri al tiggì.
Hanno detto anche di bere molto. A me non può che far bene, con tutta questa ritenzione idrica: Dio, che gambe che ho. Per non parlare della pancia: pensavo sparisse subito dopo e invece ho ancora un gonfiore…assolutamente antiestetico.
Non vedo l’ora di rimettermi in forma: dieta ferrea e palestra.
Ora posso andarci quando mi pare e non solo in pausa pranzo … Che bella invenzione la maternità!
A proposito, chissà se Andrea ha avvisato le ragazze del Corporesano Gim Club.
Basta un messaggino, anzi no, potrebbe mandargli un mms con la foto del nostro piccolo Thomas.
Appena torna glielo dico.
Chissà dov’é andato, vorrei proprio saperlo. Quando serve non si trova mai.
E il bambino, quella strega dell’ostetrica me l’ha levato dalle mani per lavarlo … D’accordo: era tutto sporco e non sarebbe venuto bene in foto, però con tutta la fatica che ho fatto poteva lasciarmelo ancora un po’.
Thomas t’ha voluto chiamare tua madre. Io gliel’ho detto che era una mezza cazzata, che poi la gente non sa mai dove mettere la H. Quasi quasi ti registro come Tomas, che ne dici nanetto? E poi le dico che si sono sbagliati quelli del Comune, facile che ci creda, fanno sempre casini quelli. Meno male che il ministro, come si chiama, quello piccolo, li ha messi tutti in riga.
Dovrebbe venire anche qua, quel ministro, a sistemare questo casino: altro che. Romeni, neri, cinesi, ecuadoriani, non é possibile che in questo reparto siano tutti di “loro”. Per carità, non sono mica razzista, ma ci nascono i bambini e questi extracomunitari non mi sembrano neanche tanto puliti. Specie i neri, c’hanno quell’odore…
La donna qua a fianco ne ha già due, di figli, dico. Uno se lo porta appeso dentro una fascia, poverino, si vede che lì nella jungla non usano i passeggini. Noi l’abbiamo preso la settimana scorsa, una sassata eh, però é lo stesso modello che usavano in quella fiction.
Potrei chiamare i ragazzi del bar, magari stasera si riesce pure a fare il calcetto, ché tanto Marta e tu ve ne state bravi bravi in ospedale.
Ciao bello, stammi bene.
Dio. Dio, non eravamo d’accordo così. Mi hai fregato. Non dovevo nascere in Svizzera? Italiani tamarri da bordo stadio e Centovetrine. Pazienza, dài. Lei sembra quasi una buona mamma, lui è un po’ coglione e un po’ razzista, ma può andare. Sono ancora giovani. C’è tempo per tirarli su. Anzi, già che ci sono, comincio
subito e stanotte gli pianto una di quelle cantate liriche da sveglia fino all’alba. Però la prossima volta, in Svizzera, ok? Ci conto.