rileggo questo commento scritto da enrico gregori (in coda al mio post scrittura in crisi):
In generale, non nello specifico, oltre che prendersela con editori sordi, ciechi, prezzolatti, inclini ai raccomandati e quant’altro, si potrebbe ogni tanto prendere in considerazione (orribile dictu) che forse si scrivono stronzate.
Remo, per esempio, si è posto per anni la domanda “perché dovrebbero interessare le storie che scrivo?”. Ecco, è una domanda lecita, matura. Più matura di “perché agli editori non interessa ciò che scrivo?”
Personalmente continuerei a pormi la prima domanda anche se un giorno dovessi pubblicare con un editore di primissimo piano.
Perché comunque ne ho visti tanti (e tu, remo, quanti ne hai visti?) di talenti o pseudo tali lanciati da grandi editori e che non sono andati da nessuna parte?
Spesso e volentieri li pubblicano e manco gli dedicano due soldi di promozione. Ho visto libri pubblicati da case editrici gigantesche (sì, quelle lì che sappiamo) e che sono stati promossi dall’autore medesimo solo su internet: blog suo, blog di amici, blog della zia, blog della zoccola che si trombano e facebook.
Secondo me non si scrive “per”, si scrive “di”. Se puoi qualcuno si accorge di noi, tanto meglio.
stamattina ricevo una mail di mario bianco. che mi ha regalato un passo scritto da Giorgio Manganelli.
Provo a cominciare un libro: in realtà non posso più attendere; sono certo che neppure una pagina di questo verrà mai pubblicata: pazienza. Non direi che mi dispiaccia poco: ma è più importante scrivere un libro che stamparlo. Una pagina non scritta ci sta dentro come un umore maligno, amaro, si fa cattivo; quella parte che doveva scriverlo si fa attratta e cancrenosa. L’incertezza di pubblicare mi ha fino ad oggi impedito di scrivere tranquillamente quello che mi passava per il capo. Ora la sicurezza di non poter pubblicare mi toglie molta inquietudine. Se scrivere una qualche sciocchezza mi dà una qualche felicità, non c’è ragione perché non lo faccia. Anche scrivere un libro è un atto pratico. Serve per rendere tollerabile l’esistenza, per rinviare il suicidio, per dare al lampione che incontriamo l’apparenza di una donna. Non ci può salvare, perché nulla ci può salvare. E un rito magico, uno scongiuro. Forse all’inferno non si può scrivere
Stanotte ho fatto una cosa che non facevo da anni: ho visto per due ore la televisione. Vedevo i gol delle partite, ho visto un servizio sul meeting di Comunione e Liberazione, (il canale successivo mi dava Studentesse vogliose: chiamami), poi ho visto, pochi minuti, uno spezzone di un film con Al Pacino.
Con gli occhi da pazzo come lui sa fare chiedeva: Quand’è che si è veramente forti?
Poi ripeteva: Quand’è che si è veramente forti, ma in tutto e con tutti?
Mica facile rispondere.
Quando non ce ne frega un cazzo di niente, nemmeno di vivere, è stata la risposta, con lo sguardo da pazzo, unico, tutto suo.
Penso che sia così anche per la scrittura: si scrive veramente qualcosa “di vero” quando non ci importa di essere pubblicati o di piacere,. ma si scrive quel che si sente.
Chissenefrega del marketing, o di emulare Berhard o Carver (o peggio, di scrivere gialli che son peggio di tanti bei fumetti).
Chissenefrega anche di finire sepolti coi grandi in Santa Croce: ché di posto, tanto, lì non ce n’è più.
Ho così pensato alla mediocrità, da cui è difficile sfuggire, e a Pessoa, Kafka, Emily Dickinson: forse scrivevano perché non gli importava niente, al di là della scrittura.
Forse un tentativo di mediazione c’è: vivere da buoni borghesi (oddio…) e pensare come pensano i pazzi, come Flaubert insegna.