A volte, anzi no, spesso, qualcuno mi dice, Tu scrivi e io no, non posso, perché io di tempo non ne ho.
Estate del 1982, sono a Follonica, in ferie. Ho ventisei anni, ho voglia di lasciare la fabbrica e il sindacato, di fare altro. Magari, di rimettermi a studiare. Mi domando: giurisprudenza oppure lettere? A Follonica, quell’estate in tenda, lessi tre libri: Il maestro e Margherita, di Bulgakov, un giallo di cui ora non ricordo il titolo, Autobiografia di una rivoluzionaria, di Angela Davis.
(Poi a Cortona acquistai un libro di poesie di una giovane studentessa di lettere; uno di quei libri probabilmente a pagamento, ma io, allora, non lo sapevo. Mi piacque, pensai: questa è la terra del Boccaccio, basta sentire i racconti piccanti dei vecchietti o leggere queste poesie, pensai quindi che dovevo fare lettere).
Ma torno a Follonica. Ad Angela Davis. Mentre prendo… l’ombra (mi piace il mare, mi piace passeggiare sulla riva del mare, poi mi piace la pineta, via dalla pazza folla, insomma) leggo di questa donna che, mentre è ricercata dalla polizia, ha problemi di sopravvivenza, l’auto guasta e altre grane, intanto studia.
E dico: se studia una così, posso studiare io lavorando in fabbrica.
Ecco: se trovo il tempo oggi per scrivere è perché nel 1982 imparai a rubare tempo al tempo.
La giornata è fatta di tanti e tanti minuti sprecati. Pause. Se queste pause vengono utilizzate dalla mente si possono fare cose.
Ma è un’esperienza mia.
Piccolo aneddoto. E’ più facile trovare tempo quando non se ne ha.
Primo anno di università. Treno, lezioni a Torino in università, treno, fabbrica, studio notturno (dopo aver dedicato mezz’ora a mia figlia).
Giugno 1983, il primo esame: 28. Luglio, il secondo: 30. Ottobre il terzo: 30.
Dissi: se chiedo sei mesi di aspettativa spacco il mondo.
Chiesi sei mesi di aspettativa: niente fabbrica per sei mesi.
Trascorsi sei mesi a cazzeggiare.
Allora, il tempo per scrivere.
Ne occorre comunque tanto. E io per scrivere Il quaderno delle voci rubate (e riscrivere) ho impiegato quasi due anni.
Ma questo perché… improvvisavo.
Scritto un capitolo non sapevo, nel modo più assoluto,come sarebbe stato il successivo.
E poi: quando scrivi così, sei a rischio: di incongruenze.
Scrivere un libro è come costruire un castello di sabbia. Basta nulla per far crollare tutto e doverlo riprendere da capo. Se si improvvisa.
Se si improvvisa è importantissimo conoscere a memoria tutto, oppure controllare tutto: tutto quello che si è scritto.
Si scrive per esempio il settimo capitolo; poi, giorni dopo, si passa al sesto (magari dopo aver riletto e corretto il sesto); ma non basta, non basta. Se scrivo il settimo capitolo devo (o dovrei) ricordare il primo, il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto.
I libri – anche pubblicati, anche di autori noti – son zeppi di incongruenze (a volte nello stesso capitolo: è successo anche a un grande, come Chandler).
Per questo, col passare del tempo, ho imparato a ridurre i tempi di scrittura della prima stesura.
In diciotto giorni (dalle 11 di sera fino all’alba) ho scritto Lo scommettitore; che poi ho riscritto, lavorandoci altri sei mesi.
In diciotto giorni, insomma, scrissi una sorta di Bignami de Lo scommettitore; poi in sei mesi ampliai. Poi – prima della pubblicazione (e seguendo i consigli di Giorgio Pozzi, di Fernandel) tagliai.
Ha ragione chi dice che la vera arte è tagliare.
Ma ci son modi diversi, per scrivere.
Ognuno deve trovare la sua strada. Questa è la mia piccola esperienza.
(Mi capita spesso di pensare alla Vargas;la Vargas dice che scrive i suoi libri in ventun giorni e che poi, conl’aiuto della sorella, fa un lungo auto-editing. Io ventun giorni, dal mattino alla sera, per scrivere un libro non li ho mai avuti. Li avessi, magari, combinerei un tubo.
L’altra sera, in birreria, sarà stata mezzanotte, ho scritto pagine e pagine con la penna, sulla moleskine. Mi sentivo a mio agio, non sentivo le voci attorno a me).
e buona giornata