11 – Contraddizioni e raccontare una storia

per scrivere occorrono tante cose.
il coraggio per esempio: il coraggio di scrivere quello che si sente “dentro”, svicolandosi da ciò che pensa il gruppo.
ascoltando il gruppo si corre il rischio di essere inghiottiti da una uniformità più o meno visibile.
se uno mentre scrive teme giudizi o critiche (mi diranno che sono troppo melenso, deamicisiano, “lialiano”) (oppure, mi diranno che sono troppo duro, volgare) non andrà da nessuna parte.
la vita e la vita raccontata in narrativa, quindi, può essere – meglio: apparire – troppo melensa, ma magari melensa non è: una madre che piange, commuovendosi, nel vedere che la propria bambina sta giocando in giardino è una madre che
piange, commuovendosi, nel vedere che la propria bambina sta giocando in giardino…
Se con una rasoiata il seria killer stacca il cazzo a qualcuno si potrà scegliere il registro, magari dire pene (forse Izzo direbbe pene), oppure dire cazzo (come farebbe Camilleri),
ma la scena resta.
devo dire che agli inizi non è facile.
quando scrissi il mio primo libro ricordo che mi chiedevo, Ma posso?
sentivo, insomma, “voci”, mi sentivo giudicato.
sta di fatto che Il quaderno delle voci rubate, scritto anche un po’ così, con un certo timore, benché sia un libro invisibile (letto o a Vercelli o dai frequentatori di questo blog) risente, a mio avviso, di una certa paura, da parte mia.
no, non dovevo assecondare nessun editore, mai atto e mai lo farò.
ricordo che un agente letterario mi chiese di modificarlo, così avrebbe provveduto poi lui a piazzarlo, mi scrisse.
rifiutai.
ma sinceramente non so dire se oggi lo riscriverei così.

insomma, vi ho raccontato di una contraddizione: ciò che si dovrebbe fare e ciò che invece – forse – non feci.
non mi lasciai andare, insomma.
una doppia contraddizione: perché quel mio scrivere poco sicuro, forse (e sottolineo il forse) ha dato viva a una scrittura “delicata” (uniforme?) che forse non mi appartiene.
chissà.
ma che ha trovato (per ora) solo consensi.

come vedete queste non sono lezioni.
tutt’altro.
mi chiedo, in primo luogo.
(e poi; non si nasce “imparati”).

Poi.

Batteva su tasti con disinvoltura percorrendo senza posa la tastiera, da un’estremità all’altra. Così scosso, il vecchio strumento, con le corde che vibravano, si faceva sentire fino in fondo al paese quando la finestra era aperta, e spesso lo scrivano del balivo, passando per la via principale, a capo scoperto e con pantofole di pezza, si fermava in ascolto, il foglio di carta tra le mani.

Più si guarda una frase come questa e più c’è da imparare, dice Flannery O’ Connor (Nel territorio del diavolo, Minimum Fax).
La frase è tratta da Madame Bovary, di Flaubert.

Quando scrissi il mio primo libro (I quaderno, cioè) non avevo ancora letto questo libro di Flannery O’ Connor.
Ma avevo letto Flaubert e, comunque, mentre scrivevo stavo capendo una cosa: che quel che si scrive va visto, toccato, annusato, così da farlo vedere, toccare, annusare al lettore.

Mi ero detto, iniziando a scrivere: Raccontami una storia. Fammela vedere e sentire e, e, e, insomma.
Scrivere non è facile.
Non bisogna sentire le voci “inutili”.
Quelle della storia, invece, sì:
E buona domenica