Nelle prime pagine di Pastorale americana, Philip Roth (le parti in corsivo, da ora, sono di Roth) rispolvera Tolstoj e il suo Ivan Il’ic, che, sul letto di morte in preda a un’angoscia e a un terrore incessante, pensa: Forse non sono vissuto come avrei dovuto.
Eppure, ricorda(no) Roth e Tolstoj, Inav Il’ic aveva tutto: posizione, 3000 rubli l’anno, una bella casa, gli amici ben piazzati ai vertici della società.
Perché, dunque, la dipartita è così dura, angosciosa?
Perché la sua vita
era stata molto semplice e molto comune, perciò terribile.
e non c’era neanche la tivù, per dire
sarà insita nella natura umana la smania di protagonismo?
sarà che siamo inzuppati di rimpianti?
sarà che qualsiasi cosa si faccia, c’è sempre qualcosa d’altro che ci manca
Mi hai fatto venire voglia di rileggerlo.
Credo che in molti si trovino spiazzati di fronte alla propria fine, sempre ingiusta comunque, qualunque vita si sia vissuta. Un’altra possibilità la vorrebbe la maggior parte della gente. Di fronte alla prerogativa di trovarsi nel nulla, senza fede, senza possibilità di riscatto, risulta difficile accettare il proprio nulla eterno e si ha una paura fottuta.
Soprattutto Ivan, che non avendo mai “vissuto pericolosamente” crede di non meritare di morire, come se questo fosse un salvacondotto alla vita eterna.
Sconcerterebbe chiunque rendersi conto in punto di morte che se si potesse tornare indietro, si vivrebbe una vita diversa.
Invece mantenere l’equilibrio di cui parla Cristina, lo ritengo un risultato straordinario, soprattutto in questa società dell’apparire e del possedere. Un profilo defilato, ma presente, equidistante, ma non estraneo, magari nella piena consapevolezza di sè. Perchè credo che qui ci stia il nocciolo della questione.
Sgnapis
Be’, in realtà il problema di Ivan Il’ic era quello di non aver saputo riempire di senso la propria vita, si era preoccupato solo di corrispondere alle aspettative altrui e per questo aveva vissuto una vita improntata al decoro (mi sembra che questa parola sia una costante del romanzo) anziché all’autenticità. Quindi non è tanto l’aver vissuto una vita “semplice” quanto non autentica. Ricordo bene anche la citazione di Roth perché mi colpì il paragone che faceva: cioè che oggi quello che per Ivan Il’ic in punto di morte era un problema, per noi non lo è più, nel senso che a molti va benissimo vivere una vita inautentica purché “felice” e che questo non costituisce più necessariamente una contraddizione… Per questi motivi, tanto il romanzo di Tolstoj quanto la citazione di Roth, quando ci penso, è come se fossero per me un pugno nello stomaco!
“Qual è l’aspetto peggiore del morire?
Perché tu ti rendi conto che la morte ha tre sfaccettature. V’è, anzitutto, lo strappo di abbandonare per sempre tutti i propri ricordi…Questo è un luogo comune, ma quanto coraggio deve avere avuto l’uomo per superare ancora e ancora questo luogo comune, senza rinunciare alla noiosa, complicata faccenda di accumulare ancora e ancora le ricchezze di consapevolezza che gli verranno portate via!
Poi abbiamo la seconda sfaccettatura – la laida sofferenza fisica – e per ragioni ovvie non ci soffermeremo. E, in ultimo, v’è lo pseudofuturo privo di caratteristiche, vuoto e nero, un’eterna non durata, il paradosso culminante delle escatologie del nostro cervello chiuso in scatola.”
V. Nabokov, Ada o dell’ardore
ciao remo, forse perché l’uomo tende a mitizzare e ad associare “normalità” con “banalità”.
stefano
buona domenica cristina, grazie
ho inviato prima di salutarti, remo,
buona domenica.
e l’oraziana “aurea mediocritas”…
come la consideriamo?