14. Efedrina
Si alzò a sedere di scatto: le era parso di sentire dei rumori. Tremante, rimase immobile in ascolto, ancora confusa dal sonno interrotto bruscamente. Adesso, però, le giungeva solo il battito amplificato del suo cuore. Tu tum, tu tum, tu tum. Assordante. Avrebbe facilmente ceduto all’illusione d’aver sognato se, proprio quando si era appena un po’ rinfrancata, un altro suono sospetto non l’avesse fatta balzare su dal lettone in cui dormiva da sola.
Non ostante il nome che i genitori le avevano dato, dopo aver letto la pubblicità dell’Efedrina Santos su una rivista medica – scambiandolo per un vero nome- Efedrina incarnava l’antitesi della popolare pianta: pacata, abitudinaria e un tantino pigra.
Alla morte dei genitori era rimasta nella casa paterna e, quasi quarantenne, viveva tranquilla del suo stipendio da maestra, concedendosi l’unico lusso di una montagna di libri, deposti a casaccio un po’ ovunque, alcuni già letti e molti ancora in paziente attesa di essere aperti. Erano i suoi amici, i libri. Gli unici.
La solitaria monotonia della sua esistenza, da qualche tempo, era stata mitigata dalla presenza d’un bel gatto nero, rinvenuto malconcio in un angolo dell’androne. Le erano sempre piaciuti i gatti, per la loro indipendenza e per l’indolenza sensuale anche. L’aveva raccolto senza indugi portandoselo nel suo tranquillo regno di carta e silenzio.
Così la sua vita le pareva abbastanza completa: lavorava, leggeva e aveva qualcuno che l’attendeva a casa ricambiando le effusioni e oziando con lei.
Imponendosi un atto di coraggio che non sentiva affatto, si diresse verso l’ingresso dal quale provenivano, adesso, soltanto dei fruscii, come se qualcuno si sfregasse contro la porta.
Guardò dallo spioncino, ma il ballatoio era deserto. Eppure il rumore continuava. Efedrina si scoprì a immaginare una lumaca, indugiante e lenta, sul legno. Rabbrividì di disgusto al pensiero dell’improbabile scia di bava appiccicosa lungo il battente. I postumi del sonno, a questa fantasia, svanirono del tutto e, trepidante, accostò l’orecchio alla porta. Improvviso un tonfo. Un rumore netto che le fece fare un balzo indietro. Poi, il silenzio.
Attese, tormentandosi le mani, atterrita. Niente.
Si fece animo e schiuse cautamente la porta senza però togliere la catenella. Fu a questo punto che il gatto, inaspettatamente, s’infilò nello spiraglio aperto, scomparendo nel buio del pianerottolo.
“Gatto… gatto” sussurrò, allarmata, e solo in quel momento si rese conto d’averlo sempre chiamato così, Gatto, senza un vero nome. Adesso le pareva assurda questa dimenticanza, ora che la bestiola era stata ingoiata dalla spaventevole oscurità della scala.
In risposta, le giunse un leggero rantolo che non poteva certo appartenere a Gatto.
O sì?
‘Quando è troppo è troppo’ pensò, in ansia per la bestiola e afferrando l’ombrello, unica arma che le capitasse a tiro, tolse silenziosamente la catenella e schiuse la porta.
Nel cono di luce che via via si allargava sulla soglia comparvero dapprima gli occhi spiritati di Gatto, placidamente assiso come se non si aspettasse che quell’unica mossa da parte della padrona. Poi, una scarpa scalcagnata, una lunga gamba e su questa, abbandonata, una mano scura. Eccolo tutto intero! Illuminato dalla lampada dell’ingresso come da un occhio di bue: un nero, steso in terra. Efedrina abbassò il braccio che brandiva l’ombrello e: “Oh, cazzo!” disse, e sarebbe rimasta allibita della propria audacia verbale se non avesse scorto il sangue che imbrattava la camicia dell’uomo.
Soffocò un grido, coprendosi la bocca con la mano, non sapeva davvero cosa fare. Pensò di bussare alla dirimpettaia, un’anziana un po’ sorda, per chiedere aiuto.
Stava per farlo, quando l’uomo aprì gli occhi e la guardò implorante.
Mormorò qualcosa che Efedrina faticò a comprendere: ‘No ospedale, no polizia, please’. E mosse lentamente il braccio, a mostrare una ferita che andava dal polso fino al gomito. Lei indugiava a metà strada tra l’uomo e il campanello della vicina, ma la voce dell’uomo, sfinita, la convinse: chiedeva dell’acqua ‘per favore’.
Allora, andò di corsa in cucina e tornò con un bicchiere che gli accostò alle labbra. In quel momento fu investita da un profumo di cuoio e sandalo, delicato, fresco. L’odore del ragazzo. Chiuse gli occhi, vinta da un leggero capogiro. Lui bevve con fatica, poi si sollevò, quel tanto da appoggiarsi con le spalle allo stipite, e continuò a guardarla con l’aria di un naufrago che finalmente tocchi riva.
‘Ahmed’ bisbigliò ‘è mio nome’.
‘Cosa ti è successo?’.
Ahmed rispose con una serie di spiegazioni sconnesse e imprecise, eppure Efedrina riuscì a capire che si era intromesso in un tentativo di stupro per salvare una ragazza. Era ormai evidente in che modo fosse stato ferito.
‘Io no permesso soggiorno’ aggiunse ‘se polizia trova me, non credere, c’è prigione o foglio via. Quale tuo nome?’.
Efedrina si scoprì a sussurrarlo.
‘Please, lasciare me qui, ancora un po’, Efe… Efedrina’.
‘No, qui fuori no!’.
E fece quello che non avrebbe mai immaginato fino a un’ora prima, lo aiutò a trascinarsi fin dentro casa. Si chiuse la porta alle spalle e vi restò appoggiata un attimo, un po’ confusa dal proprio coraggio. Poi, mossa da un’energia tutta nuova, prese dei cuscini dal divano e glieli pose sotto la testa.
Andò a procurare tutto l’occorrente per disinfettare e fasciare il braccio, respingendo con un gesto della mano, come cacciasse una mosca, il raccapriccio che sempre il sangue le aveva procurato
Quando tornò, Gatto, ormai lesto attraversatore di soglie, si era seduto vicino all’uomo che, a occhi chiusi, pareva riposare. Con una sconosciuta soddisfazione Efedrina li carezzò entrambi con lo sguardo: si somigliavano, belli e neri; parevano anche farsi simpatia e condividevano la stessa sorte disgraziata. Per tutti e due, lei rappresentava la salvezza. Sentì un vago senso di possesso inorgoglirla tutta. Lo medicò lì, per terra, sotto gli occhi vigili di Gatto e solo allora si rese conto che sarebbe stato meglio farlo spostare sul divano, anzi, con quella ferita, il povero Ahmed sarebbe stato assai più comodo nel lettone e magari con un pigiama pulito, di quelli che, per pigrizia, conservava ancora nel cassetto di suo padre. L’uomo si fece condurre docilmente, lamentandosi piano per i dolori del pestaggio subìto e, appena nel letto, mentre lei gli chiedeva se aveva fame, cadde in un sonno ferrigno. Fu guardandolo dormire, con un sorriso infantile sulle belle labbra carnose, che Efedrina espresse un desiderio.
Il primo della sua vita.