Raccontiaquattromani/14

14. Efedrina

Si alzò a sedere di scatto: le era parso di sentire dei rumori. Tremante, rimase immobile in ascolto, ancora confusa dal sonno interrotto bruscamente. Adesso, però, le giungeva solo il battito amplificato del suo cuore. Tu tum, tu tum, tu tum. Assordante. Avrebbe facilmente ceduto all’illusione d’aver sognato se, proprio quando si era appena un po’ rinfrancata, un altro suono sospetto non l’avesse fatta balzare su dal lettone in cui dormiva da sola.

Non ostante il nome che i genitori le avevano dato, dopo aver letto la pubblicità dell’Efedrina Santos su una rivista medica – scambiandolo per un vero nome- Efedrina incarnava l’antitesi della popolare pianta: pacata, abitudinaria e un tantino pigra.
Alla morte dei genitori era rimasta nella casa paterna e, quasi quarantenne, viveva tranquilla del suo stipendio da maestra, concedendosi l’unico lusso di una montagna di libri, deposti a casaccio un po’ ovunque, alcuni già letti e molti ancora in paziente attesa di essere aperti. Erano i suoi amici, i libri. Gli unici.
La solitaria monotonia della sua esistenza, da qualche tempo, era stata mitigata dalla presenza d’un bel gatto nero, rinvenuto malconcio in un angolo dell’androne. Le erano sempre piaciuti i gatti, per la loro indipendenza e per l’indolenza sensuale anche. L’aveva raccolto senza indugi portandoselo nel suo tranquillo regno di carta e silenzio.
Così la sua vita le pareva abbastanza completa: lavorava, leggeva e aveva qualcuno che l’attendeva a casa ricambiando le effusioni e oziando con lei.

Imponendosi un atto di coraggio che non sentiva affatto, si diresse verso l’ingresso dal quale provenivano, adesso, soltanto dei fruscii, come se qualcuno si sfregasse contro la porta.
Guardò dallo spioncino, ma il ballatoio era deserto. Eppure il rumore continuava. Efedrina si scoprì a immaginare una lumaca, indugiante e lenta, sul legno. Rabbrividì di disgusto al pensiero dell’improbabile scia di bava appiccicosa lungo il battente. I postumi del sonno, a questa fantasia, svanirono del tutto e, trepidante, accostò l’orecchio alla porta. Improvviso un tonfo. Un rumore netto che le fece fare un balzo indietro. Poi, il silenzio.
Attese, tormentandosi le mani, atterrita. Niente.
Si fece animo e schiuse cautamente la porta senza però togliere la catenella. Fu a questo punto che il gatto, inaspettatamente, s’infilò nello spiraglio aperto, scomparendo nel buio del pianerottolo.
“Gatto… gatto” sussurrò, allarmata, e solo in quel momento si rese conto d’averlo sempre chiamato così, Gatto, senza un vero nome. Adesso le pareva assurda questa dimenticanza, ora che la bestiola era stata ingoiata dalla spaventevole oscurità della scala.
In risposta, le giunse un leggero rantolo che non poteva certo appartenere a Gatto.
O sì?
‘Quando è troppo è troppo’ pensò, in ansia per la bestiola e afferrando l’ombrello, unica arma che le capitasse a tiro, tolse silenziosamente la catenella e schiuse la porta.
Nel cono di luce che via via si allargava sulla soglia comparvero dapprima gli occhi spiritati di Gatto, placidamente assiso come se non si aspettasse che quell’unica mossa da parte della padrona. Poi, una scarpa scalcagnata, una lunga gamba e su questa, abbandonata, una mano scura. Eccolo tutto intero! Illuminato dalla lampada dell’ingresso come da un occhio di bue: un nero, steso in terra. Efedrina abbassò il braccio che brandiva l’ombrello e: “Oh, cazzo!” disse, e sarebbe rimasta allibita della propria audacia verbale se non avesse scorto il sangue che imbrattava la camicia dell’uomo.

Soffocò un grido, coprendosi la bocca con la mano, non sapeva davvero cosa fare. Pensò di bussare alla dirimpettaia, un’anziana un po’ sorda, per chiedere aiuto.
Stava per farlo, quando l’uomo aprì gli occhi e la guardò implorante.
Mormorò qualcosa che Efedrina faticò a comprendere: ‘No ospedale, no polizia, please’. E mosse lentamente il braccio, a mostrare una ferita che andava dal polso fino al gomito. Lei indugiava a metà strada tra l’uomo e il campanello della vicina, ma la voce dell’uomo, sfinita, la convinse: chiedeva dell’acqua ‘per favore’.
Allora, andò di corsa in cucina e tornò con un bicchiere che gli accostò alle labbra. In quel momento fu investita da un profumo di cuoio e sandalo, delicato, fresco. L’odore del ragazzo. Chiuse gli occhi, vinta da un leggero capogiro. Lui bevve con fatica, poi si sollevò, quel tanto da appoggiarsi con le spalle allo stipite, e continuò a guardarla con l’aria di un naufrago che finalmente tocchi riva.
‘Ahmed’ bisbigliò ‘è mio nome’.
‘Cosa ti è successo?’.
Ahmed rispose con una serie di spiegazioni sconnesse e imprecise, eppure Efedrina riuscì a capire che si era intromesso in un tentativo di stupro per salvare una ragazza. Era ormai evidente in che modo fosse stato ferito.
‘Io no permesso soggiorno’ aggiunse ‘se polizia trova me, non credere, c’è prigione o foglio via. Quale tuo nome?’.
Efedrina si scoprì a sussurrarlo.
‘Please, lasciare me qui, ancora un po’, Efe… Efedrina’.
‘No, qui fuori no!’.
E fece quello che non avrebbe mai immaginato fino a un’ora prima, lo aiutò a trascinarsi fin dentro casa. Si chiuse la porta alle spalle e vi restò appoggiata un attimo, un po’ confusa dal proprio coraggio. Poi, mossa da un’energia tutta nuova, prese dei cuscini dal divano e glieli pose sotto la testa.
Andò a procurare tutto l’occorrente per disinfettare e fasciare il braccio, respingendo con un gesto della mano, come cacciasse una mosca, il raccapriccio che sempre il sangue le aveva procurato
Quando tornò, Gatto, ormai lesto attraversatore di soglie, si era seduto vicino all’uomo che, a occhi chiusi, pareva riposare. Con una sconosciuta soddisfazione Efedrina li carezzò entrambi con lo sguardo: si somigliavano, belli e neri; parevano anche farsi simpatia e condividevano la stessa sorte disgraziata. Per tutti e due, lei rappresentava la salvezza. Sentì un vago senso di possesso inorgoglirla tutta. Lo medicò lì, per terra, sotto gli occhi vigili di Gatto e solo allora si rese conto che sarebbe stato meglio farlo spostare sul divano, anzi, con quella ferita, il povero Ahmed sarebbe stato assai più comodo nel lettone e magari con un pigiama pulito, di quelli che, per pigrizia, conservava ancora nel cassetto di suo padre. L’uomo si fece condurre docilmente, lamentandosi piano per i dolori del pestaggio subìto e, appena nel letto, mentre lei gli chiedeva se aveva fame, cadde in un sonno ferrigno. Fu guardandolo dormire, con un sorriso infantile sulle belle labbra carnose, che Efedrina espresse un desiderio.
Il primo della sua vita.

Raccontiaquattromani/13

11. Haynt

Oggi funziona a scatti. Perché il tempo non è un continuum come sembra, magra illusione dei sensi. Lei opera al presente, accumula eventi, simula il contemporaneo. Forma cubica, materiali diversi, caratteristica: l’adesso.
Nessuno la può utilizzare, lei scorre, salta. Oggi registra ed espelle, dura solo un giorno, per l’eternità.
Te la spedisco in un pacchetto con spago sicuro. Fanne buon uso.

Oggi. Me ne avevi parlato come di un gioco, un sogno o una cosa da scrivere, insieme. Non gioco ma necessità. Sogno? niente di più reale. E non saprei cosa scrivere, se non quel codice di punti e geometrie.

Rido, perché mi scrivevi di farne buon uso. Oggi non si lascia usare, mi pretende e mi domina. Anche oggi, di Shabbath, vuole che produca due volte tre, e poi sei, e lascia che-un-mio-pensiero-cattivo-sorga per censurarlo con la luce del suo unico occhio nero sul bianco. Uno.

Vedi? Ti scrivo con una mano, e già nell’altra si muove e rotola. Non riesco a riporla, Oggi. Rotola fra le dita e vuole fare numeri. E succedono cose. Oggi le fa succedere. Pensavo di ricevere da te un cubicolo cabalistico, un interprete fasullo come tutti gli altri che ci appassionano.

Oggi, mentre si muove e forma i numeri e si placa sul panno, non legge il presente. Lo determina. E quell’occhio, cerchio di luce nera, mi chiede un tributo. Posso ancora scrivere, posso ancora resistere. E so che l’unico modo per sconfigger

(qui si interrompe la lettera che Izak Moorberg, Rabbino in Halle, stava evidentemente scrivendo al momento della sua morte: orribile, questa, cruenta e priva di cause visibili. Di fronte a lui la lettera di Moshe Azim, direttore dello Judaisches Zentrum di Lubecca. Nella mano chiusa a pugno, indenne dal carnevale di sangue intorno al corpo e sullo scrittoio, un dado).

Sofocle, Edipo re, v. 437
This day will reveal your birth and bring your ruin.
hêd’ hêmera phusei se kai diaphtherei
Oggi ti genererà e ti darà la morte.

da fernandel ai racconti

Dunque, su Abruzzo cultura è uscita questa lunga intervista al sottoscritto.
Poi. Mercoledì 6 sono a Imperia, presento La donna che parlava con i morti (ho messo il link di Milano Nera, dove hanno postato una recensione di Gordiano Lupi proprio ieri). A Imperia sarò intervistato da Marino Magliani (ho messo il link del suo ultimo libro). Ci vado volentieri, ché Marino è un amico.
Poi saranno ferie, con cose da correggere (la revisione di Tamarri, che ho promesso a Francesco Giubilei, un editing del prossimo mio libro) e con cose da leggere.
Non ho ancora deciso cosa mi porterò appresso.
Ho in mente di rileggere un classico, abbinato ad altro.
Allora, come alcuni di voi sa il mio terzo romanzo, Lo scommettitore, io lo ho pubblicato con la casa editrice di Ravenna, Fernandel.
Che propone un’offerta: 5 libri a scelta a 20 euro, spese postali comprese.
Io ho ordinato:
1. ascaride gilles (amori moderni)
2. francesca bonafini, mangiacuore
(già letto, lo regalerò).
3. matteo bianchi, mi ricordo
4. dario voltolini, il grande fiume
5.giulio mozzi, parole private dette in pubblico
Mi pare sia una buona promozione.
(Un consiglio, se qualcuno vorrà: Se fossi vera di Alessandra Buschi; poi, Lo scommettitore a tutti quelli che mi hanno scritto dicendomi che non l’hanno trovato).

Sui racconti.
Ho ricevuto una mail, fuori temp massimo: di una persona che vorrebbe partecipare. Vedremo. Ricordo che la scedenza è comunque il 15 agosto.
Poi.
Se una rivista on line, mi dicono con tanti visitatori, volesse prendere qualche racconto e pubblicarlo?
Ditemi qui, nei commenti.
(A me quando hanno chiesto ho sempre detto di sì)

E buona giornata (e come al solito non rileggo gli eventuali refusi, anche perché è l’alba e devo andare a dormire).

Raccontiaquattromani/12

Scintille


Andy si frugò nelle tasche. Niente spicci e comunque non sarebbero bastati neanche per lo zucchero filato. Svuotato, dentro e fuori. Pazienza, niente sorpresa per la cucciola.
Tornò a casa a testa bassa, fissando l’asfalto scomposto e tremolante per il caldo.
A quest’ora Sveva dovrebbe essere a casa, pensò.
Si erano conosciuti quattro anni prima all’happy hour più famoso della città.
Lei particolare, troppo trucco ma due gambe con stacco di coscia altissimo e occhi scuri su un viso triste da marionetta.
Si erano piaciuti a pelle, senza sapere bene perchè, ché in fondo di parole ne avevano dette poche.
Dieci mesi dopo era nata Luce. E poi.
Il fatto era che lui e Sveva non avevano molto da dirsi. In realtà non avevano mai avuto argomenti in comune se non il sesso consumato in fretta e senza sapore.
Quando capitava che ne avessero voglia.
Con la differenza che una volta erano felici. Così gli sembrava di ricordare.
E adesso c’era Luce, quella bambina che assomiglia a un elfo e lo chiama papà.
Dio, quanto la ama. Gli ricorda un se stesso sbiadito, troppo lontano per essere vero. Quando entra in casa gli arriva addosso a braccia spalancate, sempre.
Anche stavolta non manca il bersaglio.
“Mamma dov’è?” chiede Andy.
“È uscita con le amiche, ha detto di aspettarti” fa lei tra le lentiggini.
Cazzo, pensa Andy ma non lo dice.
Sveva esce tutte le sere, lascia Luce, tre anni, ad aspettarlo.
È solo per lei che adesso gli dispiace quel lavoro certosino che ha in mente.
Andy sa bene che un fucile a canne mozze ha una gittata più corta di una pistola, è il rapporto lunghezza- diametro che fa la differenza.
Si era documentato in un negozio di armi, ma poi ne era uscito senza il coraggio di comprare niente.
Mi arrangerò con quello da caccia del nonno, si era detto. Solo che non andava bene e così aveva segato le canne e preparato un cuscino per attutire il colpo.
Sveva tornò ubriaca e mezza nuda, sbaffi di rossetto sul mento. Quante volte l’aveva vista in quello stato?
Ormai aveva perso il conto.
Entrò in casa facendo rumore coi tacchi. Luce si svegliò, iniziò piangere e a chiamare mamma.
“Sono qui, sono qui” rispose Sveva con voce distorta. Non ce la faceva neanche a salire le scale fino alla stanza della bambina.
“Lascia, vado io”.
La scostò malamente e andò a consolare la figlia che si addormentò dopo pochi minuti.
Sveva si distese sul letto, occhi chiusi e gambe spalancate, senza forza e volontà di spogliarsi.
Dalla borsa lasciata sul pavimento sbucava un pacchetto rosso. Un bigliettino gli svolazzava intorno. A Luce, dalla mamma che ti vuole tanto bene.
Forse stava sbagliando tutto. Forse c’era del buono in lei. L’aveva amata, l’amava. Forse.
Le si avvicinò. Nella mano destra guantata teneva quell’aborto di fucile progettato per devastare a breve distanza la donna che gli stava davanti.
Prese la mira al centro del viso di lei, qualcosa si sarebbe inventato dopo. Lui quelle cose non le aveva mai fatte.
Ma adesso era per il bene di Luce, un madre così non poteva essere il suo esempio di vita.
Sentì il coraggio vacillare.
Sveva aprì gli occhi e si trovò la mezza canna davanti. La guardò con curiosità. Sorrise.
“Che hai in mente, un giochetto perverso? Dove vorresti mettere questa cosa qui?
Sì, dai, mi piace l’idea, distruggimi”. Iniziò a toccarsi.
Lui abbassò il fucile. Non era a quel tipo di distruzione che aveva pensato.
Sentì salire ondate di calore, non credeva potessero piacerle certi giochi.
Gocce di sudore gli colavano sotto la maglietta, le fu addosso in un attimo.
La girò premendole la testa sulle lenzuola. Si vedeva che era proprio quello che voleva.
“Vieni qui, brava. Mettiti così. La mia puttana”.
Strano a dirsi ma le intenzioni a volte servono più delle azioni.
Sentì riaccendersi dentro scintille azzurre di passione.

i commenti

Stefano Mina scrive di aver percepito in alcuni commenti anche un pizzico di cattiveria…
Parliamone.
Perché vedete: qualcuno, da cinque sei giorni, mi ha detto, Mi ritiro, ché non sono all’altezza dei racconti fino a oggi pubblicati.
E questo è comunque un complimento: a tutti i racconti.
Ma temo che ci sia dell’altro: la paura di certi commenti.
Io, da tanto e tanto tempo, ho deciso d’essere parco: in lodi e giudizi negativi. Le lodi illudono, i giudizi negativi bloccano. Soprattutto chi è sensibile, soprattutto chi prova per la prima volta a scrivere.
Dite pure la vostra, ora.

E copio incollo anche il commento, che condivido, di Enrico Gregori.
Che ha scritto (in coda al post precedente):
non voglio assolutamente prevaricare chicchessia, ma credo sia fondamentale (ri)considerare che qui si esprimono opinioni sui racconti e non sugli autori. ma, si potrebbe dire, ci sono comunque degli autori che hanno scritto i racconti. ovviamente sì. però il “gioco” ideato da remo è per certi versi diabolico. credo che la maggior parte dei partecipanti non abbia mai scritto a 4 a mani, meno che mai a 4 mani abbinato a uno “sconosciuto”. Quindi, secondo me, se Marco scrive con Anna, il risultato non è un racconto scitto da Marco+Anna, ma un racconto scritto da una terza entità chiamata MarcAnna. Se, ipotesi, questo racconto a me non piacesse, magari troverei splendidi i racconti scritti da Marco e Anna separatamente. Questo è quello che penso, stanco per il lavoro e stonato dal caldo.

Raccontiaquattromani/11

Stellamadre


Ho scelto questo angolo di cielo per nascere. Una volta strappata la volta celeste – così veniamo al mondo noi stelle – la vista era magnifica.
Non c’erano ancora molte compagne, ma i vortici di materia brillante che di lì a poco le avrebbero generate erano splendidi, nel loro avvolgersi silenzioso. Mi affascinavano di più i vuoti, però: di un nero concreto, irresistibilmente attraente; li vedevo come un porto sicuro. Pozzi d’inchiostro, avrei pensato, se invece di stella fossi stata bambina, a guardare stregata il calamaio innestato nel banco, col sogno di intingervi il dito.
Mi è piaciuto, dopo, danzare in rivoluzioni e rotazioni, sentire il rumore del cielo, e incendiarmi, voltandomi a guardare gli scampoli di fuoco che lasciavo dietro di me, a spegnersi lontano: mi divertivo assai a vederli esaurire la spinta, esitare, fermarsi e mettersi a ruotare. Raffreddavano, ciascuno a suo tempo e a suo modo, prendendo colori diversi. Fossi stata bambina – più grande, adesso – e non stella, avrei pensato che fossero fatti delle stoffe ruvide o vaporose, granulose o finissime, che esplodevano di vermiglio o di cobalto, di pervinca o di turchese leggero sul telaio di mia madre, quando lavorava accanto a mio padre, maestro di colori.
E vorrei esserlo, la bimba dell’inchiostro, per usarlo e dire con quello del più bello dei frammenti, che si è intiepidito lentamente, crepandosi tutto in valli e montagne e ha mischiato atomi semplici, a far liquido e a fare il cielo azzurro come altri cieli non sono. Come una madre, l’ho allevato, quel pezzo di me, l’ho scaldato piano, illuminato. Giocava, splendendo di ghiaccio, poi ostentando orgoglioso la chioma verde, l’elmo di un guerriero. Correva, quasi ruzzolasse da una pietraia, a sbucciarsi le ginocchia, imprudente, a cercare un destino diverso dagli altri. E infatti: presto divenne folle di esseri microscopici e laboriosi.
Non fossi stella, direi ciò che oggi m’inquieta. Il tempo è passato, e tanto; invece del soffio del fuoco avverto ora, profondo, un brontolio sordo, un turgore che cresce. So cos’è, ma a chi dirlo? So che marcio da un tempo che sembra infinito verso il momento in cui la fornace che mi anima finirà di ardere tutto.
E’ oggi, il giorno. Se non fossi stella, ma la bambina dell’inchiostro e delle stoffe, e la donna che ha allevato le sue creature, la mia fine sarebbe semplice, anche se dolorosa. Mancherei al mondo, forse. Ma sono stella, e sarà il mondo a mancare a me.
Resterò taciturna e pesantissima in questo angolo di cielo a raffreddare anch’io, dopo avere avvolto di fuoco e fatto svanire in un attimo il corteo di piccoli compagni che m’hanno girato attorno per tanto tempo. Senza mai avvicinarci, quasi fossimo timidi innamorati; paghi, loro, di vedere i miei lunghi capelli di luce sciolti nel cielo, e io di osservarli nei loro giochi cangianti.

Raccontiaquattromani/10

Con gli occhi spalancati

Sillabavo quelle parole. Sillabavo “malattia” e “morte”. Ma-lat-tia, mor-te, e poi di nuovo e di nuovo: ma-lat-tia, mor-te. Contavo le lettere, le volevo imparare a memoria, sentire il loro suono, capirle finalmente quelle stronze di parole. Le volevo sciogliere tra le labbra, nasconderle, farle morire anche loro.
Pensavo a quelle parole ma l’unica parola che avevo in mente davvero era Amore. L’unica che volevo sillabare urlare ingoiare era amore.
A-mo-re, a-mo-re, a-mo-re. L’unica cosa che avevo in mente, mentre lei era ancora davanti a me, con gli occhi spalancati e stesa su quel letto dove avevo consumato l’infamia più grande e ti avevo amata tramite il suo corpo, eri tu. Avevo lei lì davanti, morta e stesa sul nostro letto e mentre piangevo per lei e per la nostra vita in frantumi, e per chi eravamo stati, l’unica cosa che volevo eri tu!
Lui la guardò con ansia come a cercare conferma al suo impeto. Lei era silenziosa ma attenta, lo capiva da come si toccava le mani e si rigirava l’anello con la pietra turchese, quello che lui le aveva comprato un giorno, e lui si sentì incoraggiato a proseguire.
Sei tu l’unica cosa che ho in mente da sempre. Tu quella che ho cercato in ogni donna che ho incontrato in questi anni, tu l’unica che sa chi sono e non ne prova disgusto. Solo con te posso essere chi non ho mai potuto e solo tu mi permetti di dilatarmi e di confluire in te.
Questi anni sono stati un macigno al collo ma non potevamo distruggere le nostre famiglie e derubare i nostri figli dei sacri valori in cui non crede più nessuno. Ma ora che lei non c’è più, niente ci terrà lontani. Vieni qui e abbracciami. Non posso attendere oltre. Non possiamo permetterci di sprecare altri minuti regalandoli al tempo che è sempre pronto a derubarci delle persone e dei momenti.
Rendi vero tutto ciò che ho desiderato in questi anni. Rendi vero l’uomo che posso essere.
Fai di me e di te quel noi che dobbiamo diventare.
Lascia tutto ciò che sei, annienta il me che sono stato finora e lasciati amare finalmente.
E amami, finalmente.
Lei alzò gli occhi solo a questo punto, proprio come se stesse leggendo un libro e, finita una pagina, si preparasse a voltare per proseguire la lettura. Si alzò in piedi e lo fissò.
Ma perché gli uomini sono così cattivi? Ho letto queste parole in un libro, non chiedermi il titolo, non me lo ricordo più, quello che so è che mi scorrono continuamente davanti come in un display.
Sostieni che mi ami e non ti accorgi che lentamente mi hai ucciso. Hai ucciso la donna che ero, quella che con fatica e sacrificio e rabbia, sì, tanta rabbia, ho costruito in questi anni.
Continui a ripetere che l’unica parola che avevi in mente davvero era Amore, ma io credo che tu non conosca il vero significato di quella parola.
Pensi che corrisponda a questa sorta di ossessione che ci ha resi ciechi facendoci precipitare in un abisso senza via d’uscita, senza speranza?
Qualcuno ha detto che solo chi diventa cieco, solo chi si muove ad occhi chiusi, riesce veramente a vedere. Un tempo anch’io ci credevo. Ora non più.
Se chiudo gli occhi non è la verità quella che mi compare davanti ma l’inganno, l’inganno delle tue labbra che sussurrano incantesimi alle mie orecchie che credevo sorde, per poi scivolare esperte lungo il mio corpo che brucia e rabbrividisce in balia di queste avide esploratrici, l’inganno delle tue mani così furiose quando prendono i miei fianchi e delicate mentre giocano con i miei seni, delle tue dita che seguono linee invisibili tracciate sulla pelle fino a frugare dentro me alla ricerca di quell’essenza miracolosa che tu credi ti possa ancora salvare. La tua voracità insaziabile goccia dopo goccia mi ha svuotato l’anima.
Pensi davvero che tutto questo sia l’amore, l’amore che redime, che salva, che lenisce ogni dolore?
No, non sto rinnegando quello che c’è stato tra noi. Avevo bisogno di te come tu di me.
A volte vittima, a volte carnefice: la nostra è stata una recita con ruoli intercambiabili.
A forza di nutrirci l’uno dell’altra eravamo diventati identici: un solo essere, una sola anima. E’ stato allora che ho aperto gli occhi e mi sono spaventata. Come potevo amarti, annullandomi completamente? Non ero più io, e questo non potevo accettarlo.
In realtà, non era di me che tu avevi bisogno ma di un sogno d’amore che ti potesse salvare.
Il mondo che ci siamo inventati tu ed io è un mondo che non esiste, un mondo costruito con fili di fumo: è bastato un alito di vento e ci siamo ritrovati allo scoperto con indosso soltanto le nostre miserie.
Ma adesso tutto è chiaro e all’improvviso è così squallido. Cerchiamo di essere sinceri, almeno ora che lei è morta. L’abbiamo uccisa noi, l’hai uccisa tu giorno dopo giorno con la tua indifferenza costringendola a diventare invisibile mentre ascoltava le tue parole false e ironiche cariche di disprezzo. Sentiva la tua repulsione ogni volta che la sfioravi solo per dovere coniugale. Tremo al pensiero di come dovesse sentirsi umiliata e sola. Prima non mi preoccupavo del suo dolore, per me era come se non esistesse. Ma ora che è morta, ora che non c’è più, provo per lei una grande e dolorosa compassione. Chiamala come vuoi: solidarietà, rispetto, ma ora non posso più ignorarla e se da viva non era per me un ostacolo, accecata com’ero dalla passione, ora so che non potrò più tradirla.
Ora so che non possiamo stare insieme. Ora so che è tutto finito. Tra noi niente può più esistere. Noi non ci siamo più, capisci? “Noi” non è mai esistito davvero. Era solo frutto del tuo egoismo, del tuo volermi come fossi un prolungamento di te, del tuo essere.
Perciò me ne vado. Con gli occhi spalancati

allora

Allora, sono arrivati 14 racconti.
9 li ho postati, il decimo lo posto dopo questo.
per la verità ne sono arrivati di più, ma c’è stata qualche defezione concordata; e io ringrazio chi si è tirato indietro, per var motivi.
comunque.
chi ha partecipato (ripeto: anche solo partecipato), alla fine, mi indicherà i sei racconti migliori.
voteremo anche io, monia e criscia (che, ricordo, insieme a me leggono).
e poi procederemo con un e-book.

Raccontiaquattromani/9

Asimmetrie

Si aspettavano alle dieci fuori il suo portone, al bar di fronte, non c’era gente. Era il vuoto dentro loro e il vuoto fuori per la strada gremita del silenzio dei lampioni, che sembravano scimmiottare, ridere zitti zitti sotto i baffi. Lei portava sul volto quell’aria assente di chi incontra un fantasma, uno del passato, uno che hai amato. Uno squillo, il numero non è salvato, ma tanto lei lo ricorda a memoria, non sorride, cammina muta e pensierosa, nasconde gli occhi tra i capelli. Apre lo sportello con l’aria di un’anima in quiescenza,dai finestrini aperti, si sofferma per un attimo a notare i luccichii dalla carrozzeria, l’unico segno vivace in quella notte di segreti. Si guardano per un attimo con uno sguardo buio, fermo nel tempo. Cosa darebbe per sentire il timbro della sua voce, da vicino, come quand’erano innamorati. Darebbe una ciocca di capelli per sapere cosa pensa, per saper leggere i suoi silenzi.

“Resto qui, un po’ indietro. D’improvviso ho voglia di pensare. Ti volti ed è come l’ultima volta, indossi quella maschera corrucciata che ti metti tutte le volte che la preoccupazione per me comincia a venire a galla. Le tue sopracciglia si abbassano verso il naso ed io sento la campana che suona mentre il passaggio a livello si chiude e sopraggiunge il treno dei pensieri cattivi nella tua testolina. Come al solito non c’è bisogno di alcuna parola, i tuoi occhi parlano come e meglio della tua bocca sottile. Mi stai rimproverando lo so, come si fa solo con qualcuno a cui vuoi davvero bene. Ed io avrei voglia di buttare via lontano tutti i pensieri che mi affollano ora la mente e correrti incontro, gettarti al collo le braccia e raccontarti una storia che ti faccia ridere. Poi tutto il resto perderebbe senso. Resterei ore a sentirti ridere; ridi da far star bene.
La tua risata argentina è il cibo di cui si nutrivano i miei padiglioni auricolari; i tuoi occhi, come si stringevano, quell’infinito spiraglio tra la luce e l’oblio si bagnava delle tue lacrime ed io mi perdevo nel ritmo che scandivi con le tue ciglia; poi ci sono le tue labbra che si cercavano e si allontanavano lasciando scoperti i tuoi denti eburnei e tutto a un tratto non mi serviva più nulla. Avevo già tutto quanto. Avevo già te.
Eppure questa volta non riesco a venirti accanto. Ho bisogno di un attimo. Puoi comprenderlo? Ho bisogno di trovare un senso alla mia fortuna, di trovarti un difetto che ti renda più reale. Perché sei bellissima, assolutamente perfetta ai miei occhi. Ed io, così insignificante, non ti merito. Così resto qui, a qualche passo da te e ti accarezzo col mio sguardo, alla ricerca del particolare che rompa la tua perfetta simmetria. Ma non riesco a trovarlo, forse davvero non c’è e tu davvero ti stancherai della mia sicura imperfezione.
Uno sbuffo di vento, anzi piuttosto un alito, non me ne rendo neanche conto. Non te ne rendi conto nemmeno tu, sei ancora lì ferma che stai per spazientirti. Ti guardo meglio, un’ultima volta. Incredibile. Prima non c’era e ora c’è. Un singolo, unico, capello che prima era con gli altri al suo posto, d’improvviso ha scelto di ricollocarsi. Ora è quasi al centro ma ti passa di traverso sul tuo naso terminando sull’angolo destro della bocca. È un’inezia, una stupida asimmetria ma mi fa contento. Stupidamente felice. E tu mi guardi con aria interrogativa. Io sorrido. Tu mi osservi ancora un po’, scuoti la testa, butti via tutte le maschere precedenti e sorridi anche tu. Ti raggiungo, conquisto la tua mano e ti guido lungo la strada.
Non so se è stato il vento o qualcun altro a vincere le mie apprensioni ma adesso so che ti sentirò ancora ridere e, che ancora per molto, ti sarò accanto.”

Sembra così strano rivederti qui, lei vorrebbe dirlo, ma la voce le muore in gola, come un rivolo, strozzato. Quanto ti ho amato. Quante notti della giovinezza, abbracciando il cuscino ho desiderato d’averti, di vedere le tue mani, così come toccano il volante. Come vorrei toccassero me, la mia anima. Ma è passato troppo, tutto scorre, tutto volge rapido. Dov’è lei? Stasera sembra non esserci con noi. Kill me softly. Un velo malinconico incupisce la meraviglia del rivedersi, lui accosta garbatamente, con quell’erotismo gentile, sembra innamorare anche la strada gelida. A quell’ondata scura, lei stringe la camicetta nei pugni, fa per guardare un po’ dal finestrino, lui mette a folle, si ferma decisamente, guarda lo specchietto retrovisore e sottovoce: “Mi sposo il quindici del prossimo mese, nella chiesa del mio paese, quella che anche tu conosci, volevo dirti addio, questa volta, davvero, per sempre.” Lei in fondo, s’aspettava quest’ultima mossa, l’ultimo scacco, il re che attacca la regina, l’asimmetria dei suoi pensieri con la realtà, il regno dei desideri che non coincide con quello della strada, era già passato troppo, tutto scorre e volge, rapido e anche un rivedersi termina con un addio.

compagno di scuola

P. ha 37 anni. Lavora e si intende di alta finanza. Lavora di numeri, insomma. E’ credente. Legge. Per esempio Lucarelli, Camilleri, Santo Piazzese.
Li alterna a Il sole 24 ore, Milano Finanza, le ultime dalla Reuters, le ultime sul Torino, di cui è tifoso.
E ha letto anche La donna che parlava con i morti.

Domenica scorsa, appena mi vede, tra il serio e il faceto mi fa:
– Ho una storia da raccontare, tu la apprezzerai, credo.

La storia. P. da un po’ di tempo soffre di dolori alle gambe. Strani dolori. Così prenota delle visite di controllo. Teme, lui, che possano essere disturbi di circolazione.
Prima di andare a fare questi accertamenti gli succede di incontrare una donna, per strada. Che lo ferma, lo saluta. Ciao, ti ricordi?
Sì, P. si ricorda. E’ la mamma di un suo compagno di classe delle medie, morto a dodici anni. Male incurabile. P. vive in un posto che non è un paese e nemmeno una città: un posto, insomma, dove la gente mormora. E sa.
P. sa, perché la gente lo dice e lo racconta, che la madre di quel suo compagno morto dice di essere in contatto con il figlio. Attraverso la scrittura automatica.
Insomma. La donna sono anni che va da qualcuno (P. non sa chi sia questo qualcuno) che, attraverso la scrittura automatica, la mette, o metterebbe, in contatto con il figlio.
Allora, torniamo all’incontro.
Prima domanda. Ciao ti ricordi?, gli aveva chiesto la signora.
E lui. Certo, come va signora?
E lei, subito: Come va la schiena?
La schiena?, guardi che forse si confonde con mia sorella, mia sorella soffre di dolori alla schiena.
La donna lo guarda, dice niente.
Si salutano.
Pochi giorni dopo lui va a fare gli esami. Non è un problema di circolazione. Ma di schiena: ernia del disco.
(fin)

Una precisazione, ora. C’è gente che mi chiede. Anche che mi racconta. Nel mio libro c’è una frase: E’ difficile riuscire a credere, è difficile riuscire a non credere.
E’ la frase che pensai dopo aver incontrato la donna che parlava con i morti.
Mi avevo sorpreso. Tanto. Lei non poteva sapere che e che e che.
Io non so dire e forse non saprò mai dire. Mi interrogo. E’ facile suggestionarsi.
La stessa donna che parla con i morti, a una mia richiesta (c’era una persona che voleva parlarle), mi disse: Il mio vero problema è che mi cercano persone che non hanno un equilibrio interiore.
Traduzione: che ancor prima di andare da lei sanno già che lei li metterà in contatto con il caro estinto.
Dicevo che mi interrogo.
Penso spesso al transfert, e a persone che, senza essere psicologi, magari hanno una sorta di transfert naturale: e magari non sono loro a dire, ma noi.
Seconda traduzione: noi magari pensiamo che a parlare sia il caro estinto quando in realtà siamo noi, con il trasfert, che condizioniamo e ci lasciamo condizionare.
Ma l’incontro con la donna che parla con i morti mi fa dire anche questo: che il mistero è mistero, e per quanto noi ci arrabattiamo a spiegare a non spiegare a confutare e a dire, mistero resta.
Per dirla alla Guccini
… tutti chiusi in tante celle
fanno a chi parla più forte
per non dir che stelle e morte

fan paura…
Buon sabato

Raccontiaquattromani/8

Pugni di sabbia

Speravo che entrasse dentro di me nella sciocca illusione di farne un duplicato, pur se temperato nella turpe arroganza e malcelata timidezza. Ma lui mi fuggì via come sabbia tra le dita, e quando si alzò il vento era già sparso tra le onde in mille frammenti cristallini che brillavano nell’acqua.
Da allora, guardo sempre il mare partorire il sole e il sole frangersi nelle pieghe del mare. Poi, a giorno fatto, dormo, rifugiandomi nei sogni che prolungano la sua esistenza… Ma oggi mi sono svegliata in una pozza di pianto e sudore.

– L’ho visto tornare fradicio d’acqua e sudore con un coltello tra i denti. Avventarsi su di me, strapparmi i vestiti e passarmi il dorso del coltello sulle braccia e sui seni. Stringere forte il mio ventre e lasciare la presa graffiandomi tra i peli. Io piangevo e gridavo: “Che ti ho fatto? Che ho fatto?”. Lui, senza dire una parola, si è calato con rabbia i pantaloni, mi ha girata, gettata sulla sabbia e ha cominciato a mordere forte le mie natiche. Di colpo, si è buttato su di me e ha preso a penetrarmi mentre io piangevo e masticavo sabbia e capelli gridando: “Che t’ho fatto? Che ho fatto? Che ho fatto?”.
Mi sono alzata che ancora gridavo.
Le urla mi risuonano ancora nella testa con il fragore del mare in burrasca, mentre mi rialzo dalla pozza di liquido che inzuppa cuscino e capelli in una disgustosa mistura di sudore e saliva.
Apro la finestra nell’intento di lasciare entrare l’aria. Ma il nauseabondo odore delle acque alghive si mischia al fetore dei pesci morti portati a riva dalla tempesta della notte.
Mi era sembrata una trovata geniale affittare quel tugurio in riva al mare: “…il luogo ideale per concepire illusioni, partorire sogni e abortire rimpianti”.
Oggi fa un mese che sto lì e ogni sera mi riesce più difficile dormire. Sotto questo sole accecante, confondo i tempi e le cose.
Basta! E’ stato solo un sogno! Solo un sogno un po’ più vero degli altri. Forse è stato il mio camice giallo a togliermi il sonno: è stretto, soffoca, …e qui comincia a far un caldo infernale. Il teschio giallo del sole già risucchia il mare nei suoi raggi vampiri. Deve essere stata colpa del camice troppo stretto. Dottore, gli incubi sembrano chissà che cosa e poi invece è tutta colpa di un camice sintetico.
Stanotte dormo nuda. Nuda.
E se dovesse tornare? Il coltello brillava … lui no, no, lui non aveva mica i denti così e poi non c’è ragione… io dopo tutto che ho fatto? Mio Dio, non avrà mica saputo… Perché trattarmi così? Prendermi nel sonno e sparire di nuovo nel nulla.
Se ci penso mi metto a gridare anche adesso! Ora stesso!

– Su, su, signora, si calmi! Nel suo stato tutta questa agitazione non le fa affatto bene. Tiri un bel respiro e si calmi; in fondo si è trattato solo di uno stupido sogno. Non la disturba, vero, se mi sfilo il camice; fa caldo, sa!… Su si rilassi.
– Sì, dottore, ma… e il bambino?
– Nessun danno al bambino, non si preoccupi, era solo un brutto sogno. La smetta di pensare a queste sciocchezze!
– Dottore, ma… quei colpi sul ventre, mi ha schiacciato la pancia per terra e… Ma che fa?
– Suvvia, si tranquillizzi, controllo solo che sia tutto a posto, non gridi così, su e, perdio, si giri e non faccia tante storie!
– Dottore, il bambino! Il bambino, mi lasci, no! Mi lasci! Mi sta graffiando, ma che fa? Ma no! No! Noooo! Ma che le ho fatto, dottore, che le ho fatto, che ho fatto?

Ecco, da questo punto non riesco a ricordare altro. Il risveglio arriva dentro l’urlo di un dolore acuto, ed eccomi qui, ancora tremante.
“Un medico stimato …Possibile?”, mi dico.
Mi pare di rivedere le sue mani afferrare il mio camice come per estrema difesa e i graffi, la sua lotta disperata e le urla… e quella domanda, ma che le ho fatto?, ancora quella domanda … come una supplica…
“Possibile?”, mi dico.
Non c’è notte che non mi svegli dentro quel sogno, ma… mio dio, dio, dio! Non è mio quel sogno! Quell’uomo non posso essere io…
Io volevo solo duplicarmi in lei. Solo questo volevo. Ma lei mi è fuggita via come sabbia tra le dita e si è messa a gridare e… il vento… il sudore… ero fradicio… sabbia e sole negli occhi … No, no noooo, non ci ho visto più… Dio, dio, dio, ma che ho fatto? Che ho fatto? Che le ho fatto?
“Possibile? Possibile?”, mi dico ora. Ora che il suo corpo se l’è portato il vento… sparso tra le onde in mille frammenti cristallini che brillavano nell’acqua.

Da allora, guardo sempre il mare partorire il sole e il sole frangersi nelle pieghe del mare. Poi, a giorno fatto, dormo, rifugiandomi nei sogni che prolungano la sua esistenza…