ho due notizie capo, due

– Capo, capo ho due notizie, mi dia due ore di tempo, le faccio due articoli, poi lei titola e passa i pezzi ma, mi creda, son cose grosse, e guardi… in prima pagina ci può scappare un lancio, bello, e qui il titolo se posso potrei suggerirlo io…
– E sarebbe il titolo bomba che dovrebbe lanciare i tuoi due articoli?
– Non è un paese per vecchi…
Il caporedattore guardò il giovane praticante. Era un brufolotico rompicoglioni, non gli piaceva, come si permetteva di suggerirgli i titoli?, ma c’era di peggio in redazione: almeno lui andava in giro, anziché restare. come altri, al giornale ad appiattirsi il culo leggendo le agenzie e cazzeggiando su internet.
– Siediti, fai un bel respiro, e ricomincia da capo, ho capito un cazzo di quello che hai detto…
– Ho due cose per il giornale di domani…
– Che tu abbia due cose l’ho capito, ma se permetti decido io cosa mettere sul giornale di domani…
– Ma certo si figuri…
– Ricomincia, dimmi, ma cerca di essere chiaro, senza farmi perdere troppo tempo, abbiamo ancora tre ore prima di chiudere, non ho voglia di sentire le bestemmie della tipografia, racconta. A proposito, la conferenza stampa della Polizia era tre ore fa, mi spieghi perché hai impiegato tutto questo tempo?
– Perché ho due notizie…
– Ho capito, vai, ma chiaro e veloce, mi raccomando, e respira, che mi fai diventare ansioso, datti una calmata…
– Ma non dovevo fare in fretta?
– Vedi di non farmi incazzare, vai, parla.
Annuì con la testa il caporedattore mentre il giovane cronista gli raccontava del primo fatto: la conferenza stampa, cioè, della questura.
Avevano beccato una banda di zingari-truffatori. E dato ai giornalisti le foto segnalatiche. La novità era che si erano evoluti gli zingari e soprattutto le zingare. Non più anelli e collane ma collant e capelli fatti fare dalla parrucchiera. Insomma, una banda di zingari che non sembravano zingari e che, da giorni, andavano a depredare le case di anziani che viveano soli, in periferia.
– Mica scemi, mica vanno in centro -, disse il giovane cronista al caporedattore intento a guardare la foto segnaletica di una zingara: gli ricordava una sua cugina, carina anche.
– Va bene, questa è buona. Dimmi dell’altra grande notizia che ti ha fatto far tardi – disse con una punta di sarcasmo il boss della cronaca,
– Ho un bloc notes pieno di appunti, capo-, gli rispose il ragazzo.
Che appena cominciò a raccontargli di una casa di riposo fu subito interrotto dal suo capo
– Vuoi che prendiamo un’altra querela, lo sai no?, che questi hanno santi in paradiso?
Non lo sapeva, perché non disse nulla il giovane giornalista. Che aveva tanta voglia di fumare e di andare in bagno, ma non poteva: il caporedattore, accidenti a lui, aveva smesso di fumare, e quindi non transigeva, e poi aveva una fretta bestia. Guardava l’orologio ogni minuto.
Senza guardare il bloc notes gli disse che
– in quella casa di riposo i vecchi…
– Per favore, dì anziani, se ti abitui a parlare in modo corretto poi eviti gli strafalcioni-, lo corresse il suo capo.
I vecchi non autosuffcienti, gli raccontò il ragazzo, quelli che insomma si cacano addosso
– Se avremo la sfortuna di arrivare a novant’anni ci cacheremo addosso anche noi due-, lo interruppe il caporedattore, guardando l’ora (ovvio).
I vecchi che se la fanno addosso, gli raccontò il ragazzo, vengono puliti a intervalli di quattro ore.
– Quattro ore, capisce capo? Se se la fanno…
– Se se la fanno nell’ora sbagliata, cazzi loro -, lo interruppe l’altro. Con un – Vai avanti, forza, sempre che tu mi debba dire altro.
Gli doveva dire altro, il giovane cronista. Che ai vecchi non autosufficienti, il poco personale della casa di riposo, per mancanza di tempo, a pranzo e cena

servono dei beveroni che contengono…
– Che contengono minestra, carne e budino al ciccolato, è vecchia ragazzo, si frulla tutto e si fa prima, lo sapevo. Piuttosto, chi te le ha raccontate queste cose? Fonte attendibile, verificabile? Spero più di una…
– Un infermiere che è anche un sindacalista.
– Usciamo con un’intervista?
– No, dice che poi rischia il posto di lavoro.
– E il giornale dovrebbe rischiare una querela per cose che si sanno?- disse, alzandosi, il caporedattore.
– Appunto, si sanno, quindi noi le scriviamo e se ci querelano poi avremo dalla nostra le testimonianze dei parenti… del personale
– Ragazzo che film hai visto? Se ci quereleno son cazzi, perché nessuno verrebbe, direbbero che hanno paura, o di veder trattata ancora peggio mammà, o di perdere il posto di lavoro… e io sto perdendo la pazienza, vai, vai a scrivere degli zingari, le foto sono buone, specie la zingara, bella gnocca, faccio vedere al direttore, vedrai, il tuo pezzo parte in prima pagina, contento?

(diciamo che questo post frettoloso mi è venuto in mente dopo aver letto, nei giorni scorsi, Loredana Lipperini e Massimo Maugeri, e dopo essermi ricordato di un libro sull’argomento vecchi: La casa del quarto comandamento, di Marco Salvador).
buona giornata

l’anarchico

Sono passati diversi anni, almeno quattro, dall’ultima volta che l’ho visto.
Ci siamo salutati, io ero di fretta, andavo non ricordo dove per lavoro, lui camminava accanto a una ragazzina che avrà avuto massimo dodici anni. Era sua figlia.

Quella ragazzina mi ha guardato e salutato, questione di un attimo.
Poi non l’ho più rivista. Nemmeno lui. Due anni fa mi dissero che era un mese che era morto, e io non l’avevo saputo.
Era un mio compagno di scuola, era anche un anarchico, lui. Era la figlia di un anarchico, lei, la ragazzina vista un attimo.
Li ho fatti diventare Leone l’anarchico ed Anna Antichi,
nel mio libro.

Può essere sufficiente un’immagine per scrivere un libro.
L’immagine che mi è rimasta impressa è l’espressione di quella ragazzina, dolce e corrucciata al tempo stesso.
Anna Antichi, insomma.

Non ne avevo mai parlato, prima. Certo, tanti mi hanno chiesto da dove ho tirato fuori Anna Antichi.
Da un’idea, ho sempre detto durante le presentazioni, da un’immagine. Poi mi fermavo.
Oggi per la prima volta mi hanno chiesto, in un’intervista che verrà pubblicata on line, di Leone l’anarchico. Se mi sono ispirato a qualcuno.
Era il più buono dei miei compagni di scuola ed era anche un anarchico. Faceva parte dei circolo Galleani. Prima di venire a scuola lavorava, di notte, con suo padre e suo fratello, in panetteria. O forse (non ricordo bene) andava solo a consegnare il pane; sta di fatto che si svegliava prima di noi, suoi compagni.

Ci siamo diplomati insieme, abbiamo fatto taglia insieme, abbiamo passato la notte prima degli esami, con altri due, un fascista e un donnaiolo, a dire Adesso si ripassa senza mai farlo; poi però, dopo il diploma, ci siam persi di vista.
Ricordo un incontro, mica bello da ricordare.
In ospedale, entrambi ricoverati. Era il 1983, io avevo 26 anni, lui 27. Io era lì causa polmonite virale (forse legionella), lui per pneuma toracico. Era debole, magrissimo.

Suo padre, che non era anarchico ma comunista, era preoccupato, e tanto, per le condizioni di salute del figlio. Temeva di perderlo.
No, non era ancora tempo. Lui per quel figlio gracile, anarchico e buono come il pane che sfornava, sarebbe stato disposto a tutto, pur di vederlo guarire.
Così fece quello che un vero comunista – quelli di una volta intrendo – non usa fare, mai. Andò dall’aiuto primario e gli allungò una busta in tasca.
Lo fece piangere quell’aiuto primario. Gli disse, restituendogli la busta: Lei faccia il panettiere che io faccio il dottore, ci penso io a suo figlio.
Me lo venne a raccontare, piangendo di commozione.

Avevamo un insegnante di destra, alle superiori. Di destra tanto, mi faceva le paranoie perché non mi pettinavo mai (abitudine che mi è rimasta). Quando seppe che era malato e che non poteva fare lavori duri fece in modo di farlo diventare suo assistente, nel laboratorio di chimica. (Quell’insegnate, un po’ fascita dicono, e gran testa di cavolo dico io, poi ho saputo che di nascosto ha fatto più bene di tutte le dame di san vincenzo di città e dintorni. Per esempio prestando soldi ad ex allievi che, pieni di debiti, non glieli hanno mai restituiti. O facendo anche solo ripetizioni senza mai volere nulla).

Leone l’anarchico, il padre di Anna Antichi.
Il ricordo di due persone incrociate sul corso principale della mia città.

Un vecchio post, ora: doveroso da parte mia.
(e un grazie a Massimo Novelli)

intellettuali

Avevo 19 anni quando andai a lavorare in fabbrica.
Ero iscritto a Lettere, a Milano, frequentavo circoli, cineforum, leggevo, avevo letto Marx e Freud, Gramsci e Bordiga, Remarque e Steinbeck.
Imparai, in fabbrica, che quel che avevo letto mi era servito e mi sarebbe servito solo se riuscivo a tradurlo. La fabbrica è dura, cattiva anche. Un ragazzo, che frequentava giurisprudenza e che sapeva brani di Sartre a memoria, un giorno disse, Il contesto si manifesti. Lo “lapidarono”, lanciandogli degli scatole di cartone, leggere, certo, ma lui ci restò male.
Continua a frequentare circoli e cineforum. Vercelli, Torino, qualche volta Milano.
C’è una cosa che non dimenticherò mai, e che avrò visto cento volte. Un operaio prende la parola. E’ agitato, magari non sa esprimersi bene. Ci son sempre un pio di intellettuali di turno che, mentre lui parla, si guardano, scambiandosi sorrisini eloquenti: Cazzo dice quello?, come parla?
Chi parla con le mani, spaccandosi la schiena per ore e ore, merita rispetto. Qualcuno (faccio un nome: Danilo Dolci, anzi no, due: Pasolini e Dolci) lo capiva.
Si riempivano in tanti la bocca, parlando di “classe operaia”; però la bocca e il naso badavano a tenerli lontani, ché la classe operaia puzza di sudore.
Erano anni, quelli, in cui c’era ancora il vecchio Pci.
Certi dirigenti del vecchio Pci sapevano parlare. E ascoltare.
Io li avevo in uggia: erano, per lo più, nostalgici del togliattismi-stalinismo, oppure fedeli alla linea di un partito che già allora faceva l’occhiolino ala Fiat e al grande capitalismo, cercando di rassicurarlo (per questo feci del sindacalismo, ma nella Cisl di Carniti; e, c’erntra niente, ma quando scoppiò il caso Tortora votai per i Radicali).
Oltre al vecchio Pci, alla sinistra lombardiana del psi, alle Acli e a certi esponenti del mondo cattolico vicini agli strati più deboli c’era anche, certo, un’informazione televisa, magari monopolizzata dalla vecchia dc, ma non spazzatura.
Oggi è un pasticcio, certo.
Se rinascesse, oggi, una scuola di Barbiana con un don Milani non ci sarebbe, solo, il problema che l’operaio conosce solo 150 parole; ne conosce magari 250 per lo più inutili.
Comunque, leggete questo.

Da molto tempo, il voto non è determinato da appartenenze ideologiche. Se si vede che lo stipendio è basso, i prezzi aumentano, si rischia il posto di lavoro e, magari, che un immigrato ti ha superato in graduatoria per mettere il bambino all’asilo, non c’è fedeltà partitica che tenga. Nella nostra società, la paura di perdere è molto più forte della speranza di acquistare (…). Andare meno ai convegni per pontificare su dove va il mondo e girare più nei negozi e nei mercati. Basta con i salotti radical-chic, dove gli immigrati, certo, non sono anche un problema, dove la sicurezza è garantita da guardie del corpo, dove si può ricorrere agli asili privati e alla sanità privata. Basta con la sinistra che dice sempre no, quella che alla difficile gestione della realtà, quella che esiste davvero non quella immaginaria, preferisce una sterile rivendicazione continua. E, poi, certo, bisogna studiare le alleanze…

Lo ha dichiarato il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, in un’intervista a La Stampa.
Finalmente.
(Nei giorni scorsi un interinale ha scritto una lettera, lamentando l’assenza del sindacato. Il sindacato gli ha risposto, dicendo che invece c’è, e che conduce importanti trattative. L’interinale non ha replicato. Lui, davanti al posto dove lavora, un sindacalista non l’ha mai visto).
E poi.
Chiamparino conosce bene la situazione della periferia torinese. C’è paura, lì. La Lega Nord è stata premiata: perché nessuno è riuscita a contrastarla la paura.

Dimenticavo.
Dalle mie parti, a Nord, c’è una cittadina che è un gioiello, Varallo (6, 7mila abitanti; 7 librerie almeno). Il sindaco, Gianluca Buonanno, un passato in An, ora nella Lega, è stato eletto al parlamento. Hanno votato tutti, per lui, comunisti compresi. Per lui ha votato quasi il cinquanta per cento di un elettorato, tradizionalmente di sinistra. Ogni tanto fa le sue sparate, ma a Varallo non c’è intolleranza. C’è anche tanto flolclore nella Lega Nord. Che non è da sottovalutare, perché fa breccia. Ma va capito. Il fatto che una fetta di elettorato, di sinistra, abbia votato per un sindaco leghista deve far riflettere, credo.

distrazioni

Ero in birreria ieri sera. Un posto piacevole, frequentato ma non assordante.
Leggo, la sera in birreria io. Dopo un’ora circa esco a fumare. Succede spesso che io, frugando in tasca, mi accorga di non avere l’accendino. Ne avevo tre, ieri sera, di dubbia provenienza: probabilmente rubati ai miei colleghi.
Quando, tre anni fa, ho fatto l’ultimo trasloco, ne ho trovati una trentina di accendini, sulla scrivani, in bagno, dentro i cassetti, in cucina. Li ho restituiti ai legittimi proprietari, i miei colleghi. Se li son divisi, come un bottino.
Dovessi traslocare di nuovo… sarà a quota venti, penso.

Sto scrivendo, ora. Nuovo libro. Due capitoli, no, nessun capitolo: stanotte alle cinque la decisione: butto via tutto e ricomincio. Salvo solo l’incipit (ed è una gran cosa).
Scrivo di notte, sempre, ma se trovo pause al giornale, come ora, magari leggo quel che ho scritto (la notte precedente, appunto). E ho quindi, sempre, la chiavetta con me. Ogni tanto la perdo. Una volta l’ho lasciata nel taschino dellacamicia, così è finita in lavatrice. Succedeva la stessa cosa coi dischetti: ne persi uno, tre anni fa, con dentro una storia che sarebbe diventata un libro (magari non è stato nemmeno aperto, uso star office, io).

Avevo mal di testa forte, una settimana fa, in piena notte. Cerco in casa qualcosa, macché c’è nulla. Poi, nel cassetto dei medicinali, vedo un tappo, lo riconosco, evviva, è novalgina. Acqua nel bicchiere, trenta gocce, qualcosa di più, facciamo trentacinque, bevo, e c’è qualcosa di strano: il gusto. Sa di fragola quel che ho bevuto, non quell’amarognolo schifoso di novalgina. Guardo la bottiglietta di Novalgina, è scolorita. Minchia, non è Novalgina. E’ uno pscofarmaco mai usato, dosaggio consigliato venti gocce. Già son rincoglionito di mio. Per due giorni ho barcollato, di piedi e di mente.

Le distrazioni son bestie rare, a volte.
Un mio parente alla lontana, una ventina d’anni fa. Aveva 85 anni, non era mai stato in ospedale, nemmeno per l’appendicite o le tonsille. Quelli, insomma, che nascono sani e muiono sani, quasi.
Fa caldo, entra in un bar, conosce e lo conoscono. Chiede un bicchiere d’acqua. Gli danno un bicchiere, ma non c’è acqua, c’è, dentro un acido corrosivo. Nessuno, poi, ha saputo ricostruire, capire. Non ha fatto nemmeno in tempo a dire, imprecare, lamentarsi, che si è accasciato: convlusioni, poi coma profondo, morte. Nessuno voleva ammazzarlo. Non ricordo l’acido. So che è successo. Un racconto ricorrente, quando vado da miei parenti a Cortona. Una morte stupida, del resto la morte, distrazioni o meno, è sempre stupida. Dice basta, lei. Senza sentir ragioni.

buona giornata

Mi ha appena telefonato un amico. Viveva a Vercelli, ora sta in Toscana. Ha appena visitato questa cooperativa che è anche una comunità: 25 persone che lavorano e convivono.
Gli ho chiesto – mi ha raccontato questo mio amico – come fanno per le ferie. Mi han detto che loro sono sempre in ferie, tutto l’anno; in realtà ci vanno, a turno, ma stanno bene lì, si vede che è un mondo a parte.

Donne: che io conosco

Mi dice: Non riesco a stare zitta, io. Ho avuto sempre grane ma zitta non ci sto e zitta non sono stata quando denunciai che in quell’Istituto davano botte. Sono stata l’unica, però.

Mi scrive: Li senti negli ospedali questi atteggiamenti arroganti nei confronti degli anziani, a partire dall’uso del “tu”.

Mi telefona: Andrò a dire, va bene, conducetela pure la vostra battaglia sull’eutanasia, ma spiegatemi se non è come o peggio dell’eutanasia che si lascino morire dei poveri vecchi senza badare a cambiarli, col pannolone sporco…

Un’altra telefonata: E’ anche successo che non ho guardato in faccia nessuno, compresi quelli della mia famiglia, le persone più care. In me è più forte il senso di giustizia: e mi indigno quando si finge di non vedere o si giustificano amici cari o parenti.

Mi raccontò: Un mio compagno di università mi ha sgridato, mi ha detto che devo mantenere una pecisa distanza dai pazenti, gliel’ha spiegato suo padre, che è medico. Io però a quella vecchietta ricoverata sono andata a tenerle la mano, perché era sola. Mi ha accarezzato, e ringraziato.

Esempi di donne: che io conosco.

Segnalazione.
Di e su Vladimir Visotskij ne scrissi sull’altro blog.
Ieri sera, guardano in rete “cose elettorali”, ho letto che è appena uscito un cd di Finardi, che canta, appunto, Visotskij.
Ci fu qualcuno che si arrabbiò quando scrissi (riportando) che
per trovare qualcosa di simile in Italia dovremmo fondere Carmelo Bene, Francesco Guccini, Piero Ciampi e Pier Paolo Pasolini…
Comunque. Sono un po’ di fretta e quindi sul cd di Finardi ho travoto questo post, che segnalo

il gatto (vecchio post)

Giovedì 27 Aprile 2006

Il gatto che aspetta la morte (Domenica pomeriggio.
In auto, da Vercelli a Montemagno, nell’astigiano, da Mario Bianco).

Per strada un gatto, bianco e rosso.
Accanto a lui, sull’asfalto, una grande macchia, di sangue.
Parrebbe adagiato, come usano fare i gatti quando dormono, ma la testa è eretta, pare staccata, non appartenere al corpo.
Fissa il vuoto, maestoso.
Sembra irreale, scolpito, di pietra.
Aspetta.
Piove, appena appena.

(Sono andato a riprendere un vecchio post dal vecchio blog. Internet è uno stimolo a proporre sempre cose nuove ma, con le sue sovrapposizioni continue di immagini e parole, cancella, anche.
A volte mi piace rivedere vecchi film, già visti, o rileggere, perlomeno sfogliare, libri o poesie o testi teatrali già letti.
Farò e faccio così anche qui. E magari, col permesso degli interessati . e se li conosco senza nemmeno il permesso – andrò a riproporre, ogni tanto, cose impolverate)
(e buona giornata)

una non risposta, forse

In un commento, Morgan mi ha scritto
Remo, rispetto all’intervista, mi pare sempre di capire, quando citi il tuo passato, che ci sia stata solitudine e rabbia, sbaglio?

Son tanti i miei passati, caro Morgan, Come i tuoi come quelli di altri.
Ci sono state solitudini, rabbie, ma anche feste e primavere. Gli anni più belli, forse, quando, operaio metalmeccanico, ripresi a studiare. Il treno, tutte le mattine verso Torino, studiando. Il treno, tutti i giorni a mezzogiorno e qualcosa, che mi riportava a Vercelli; studiavo, ascoltavo, a volte dormicchiavo, ché quattro ore di sonno a notte, a volte tre, erano poche davvero.
Non ti sto rispondendo, Morgan, lo so.
Mi viene in mente che, sere fa, presentando il mio ultimo libro mi han chiesto: ma non si corre il rischio di scoprirsi un po’ troppo tenendo un blog?
Ho risposto di sì, a volte, forse, si dice troppo.
Io, forse, a volte dico troppo: perché, per esempio, io mi piaccio di più quando sto zitto rispetto a quando parlo.
C’è però un’altra cosa che mi vien da dire, ora.
Scoprirsi, dire dei propri affetti e d’altro, magari no, a un certo punto ci si deve fermare. Così racconto, e volentieri, di amori lontani, ma mai, o quasi mai, di cose recenti.
Ma dire quel che penso l’ho fatta diventare, sempre più, una regola di vita, da qualche anno. A cominciare dal mio lavoro, con i miei giornalisti (e nei limiti del possibile e, a volte, anche superandoli, questi limiti anche con i lettori): non ho segreti per la mia redazione. Nel bene e nel male. Non mi è costato – anzi no, mi è costato – raccontare le… il termine giusto è minchiate che ho fatto in passato. Ché a farsi solo belli è facile facile.
Non ti ho risposto Morgan, sul mio passato. Ne son geloso, come dei libri che leggo: sono miei e solo miei, e guai a chi li tocca.
La rabbia, poi.
La rabbia, dicevo al telefono ieri a una persona che ogni tanto viene qui, è un dovere morale.
M’arrabbio spesso, se vedo un’ingiustizia; m’arrabbio ancor di più: se sbaglio o sono superficiale.
Ma c’è, credo, una compensazione: non m’arrabbio mai se qualcuno, quando guido, mi taglia la strada, o mi suon, o non mi dà la precedenza. Né m’arrabbio se al supermercato o in banca qualcuno mi passa davanti. O mi fanno pagare di più al ristorante. O se la pasta è scotta, e tante altre cose ancora.
Penso, sulla rabbia, d’aver fatto scelte precise, insomma.
Però se un anziano viene maltrattato in una casa di riposo o in un ospedale o dovunque mi torna in mente il bel verso di Ho Chi Mhin:
Urlino tutte le ingiustizie del modo.
buona domenica

un senso di vago

in coda al precedente post c’è una domanda di Donna Laura su Baricco.

le rispondo qui.

baricco lo leggo: con piacere.
Seta in particolare.

non sono un critico, io, e quindi non so valutare. ma a prescindere dai gusti io penso che i migliori scrittori italiani viventi siano Camilleri, Eco, Busi, Tabucchi, Vassalli, Baricco, Lucarelli, Siti, Renato Olivieri e don Luisito Bianchi. e comunque.
conosco poco i Wu Ming, per esempio, sui quali, quindi, non posso dire.
ma tanti di noi non conoscono autori pubblicati, oggi, magari da Fernandel e che nessuno considera?
si può dire, certo, ma tanto per dire.
critici e lettori da poco possono sbizzarrirsi ma tra cent’anni, magari, di questo periodo verrà consacrata la Tamaro e non Baricco, chissà.
credo però che i contemporanei non sappiano giudicare i contemporananei.
si pensi a Céline, o a Fenoglio. o a Primo Levi, bocciato da Einaudi e Gallimard
aleggia, su questo discorso dei consacrati oggi e di quelli che verranno consacrati tra cent’anni, comunque un senso di vago.
e quanti scrittori, magari validi, non vengono e non verranno mai consacrati o non sono mai stati consacrati?, chissà.

un senso di vago.
morselli è stato pubblicato dopo la morte.
e con lui altri mille.
e a dino campana persero addirittura il manoscritto dei Canti Orfici… E forse non fu solo Sibilla a fare impazzire, ancor di più, un uomo già predisposto, pare, a vacillare
e avverto, io, un senso di vaghezza e di lontananza da chi critica, giudica, sa.
però dite, se volete, certo.
e buona giornata

ho conosciuto Baricco, mi dice

Sono, siamo in anticipo per la presentazione del libro.
Così entriamo in un bar e ordiniamo tre caffè.
Ho due copie del libro con me, e un bloc notes. Per comodità appoggio tutto sul bancone mentre sorseggio il caffè. La proprietaria del bar, sui quaranta, bionda, occhi vivaci guarda prima la copertina del libro e poi mi fa: Lo ha scritto lei?
Non mi conosce:
Livorno Ferraris è a mezz’ora da Vercelli, ci sono stato poche volte, io. Ma sapendo che davanti al suo locale, nella biblioteca comunale, si svolgerà, questione di minuti, una presentazione, e vedendomi con i libri, la signora ha fatto uno più uno, e infatti.
Mi fa: Dove lo trovo?, mi interessa.
Le faccio: So che qui non ci sono librerie, c’è a Vercelli, in tutte le librerie, e nei supermercati.
Mi fa: Ma parla di persone che parlano con i morti?
Le faccio: In parte sì e in parte no (e le spiego che il libro è più che altro un giallo).
Chiedo: Quanto fa?
Niente, offro io, dice la signora. Che aggiunge: Comprerò il libro.
Ringrazio, esco, usciamo. Fa freddo, accendo una sigaretta.
Nonostante faccia un freddo boia, fuori dal bar ci sono due ragazzi con una maglietta estiva. E’ una maglietta da lavoro, blu, c’è scritto cooperativa e qualcosa.
Scusi, mi chiede uno di loro.
Sì?, rispondo.
E’ uno scrittore lei?
Non rispondo subito, faccio fatica, dipende dal contesto -da dove sono, da non so bene cosa- ma faccio fatica, tante volte, a definirmi tale (e ne ho parlato, poi, durante la presentazione).
Comunque: al ragazzo devo una risposta, mi sta guardando, penso voglia dirmi qualcosa.
Sì, scrivo, gli dico.
Mi fa vedere?, mi chiede, indicandomi il libro.
Lo guarda, mi guarda, mi sorride, mi dice, Sa, io ho conosciuto
Baricco, e dopo ho letto tutti i suoi libri, proprio un grande, grande scrittore, e poi sa… sto scrivendo un libro anche io… e il suo, dove lo posso trovare?
Gli rispondo, avrei voglia di regalargli una copia, e sto quasi per farlo. Poi ripenso alla signora del bar. Ho due libri con me, uno mi serve per la presentazione.
Penso che il libro, e mentre penso il ragazzo mi stringe la mano e mi dice “complimenti”, penso, dicevo, che il libro costa 9 euro e 90, 8 e qualcosa nei supermercati, e che la signora non mi ha fatto pagare 2 euro e 40 per i tre caffè: do la precedenza alle donne e lo regalo a lei.
(La presentazione, poi, non è andata granché bene: sei copie vendute, ma, tra i circa trenta presenti, alcuni alla fine si sono avvicinati per farsi autografare una copia acquistata già, precedentemente).
Buona giornata

Dimenticavo. Grazie a quelle collaboratrici del mio giornale che sono venute, testimoniando, ancora una volta, l’affetto che nutrono nei miei confronti. E grazie all’assessore alla cultura del Comune di Livorno Ferraris, perché ha letto il libro e perché, insieme alla giornalista Elena Furini che mi presentava e mi intervistava, è intervenuta con domande interessanti (per esempio: quanto conta una copertina per un libro?).

Livorno Ferraris è un comune con una forte tradizione legata al vecchio Pci e alla sinistra. Quando ci sono le amministrative, però, e questo si sa, saltano gli “attaccamenti ideologici” e si vota la persona. Così succede che, specie nei piccoli centri come appunto lo è Livorno Ferraris, magari turandosi il naso qualche elettore di sinistra voti un sindaco di alleanza nazionale…

inventarsi nomi, scrivendo

Lo ricoverò e lo salvò, squartandolo come un maiale; e quando, dopo l’operazione, lo ricucirono, persero il conto dei punti di sutura. Il professore, in un colpo solo, gli tolse l’appendicite e la cistifellea e dopo gli aprì anche lo stomaco, perché aveva un’ulcera brutta, che l’avrebbe ammazzato. Il professore lo tenne in ospedale tre mesi e, l’ultimo giorno, quando lo dimise, gli si presentò davanti con una bottiglia di Vecchia Romagna, così brindarono e, con loro, nonostante la suora dimenasse il capo sconsolata, brindarono gli altri malati del vecchio ospedale.

Non so quanto di vero ci sia in questo racconto che mi ha fatto mio padre che a sua volta lo sentì da suo padre, mio nonno, nato nel 1880. Ma di sicuro, mio nonno e altri vecchi verso quel professore, che quando dimetteva un paziente brindava con lui con della Vecchia Romagna, nutriva ammirazione. Tanta.
Perché ho raccontato questo. Perché in coda all’ultimo post c’è una domanda, di Pispa. Che chiede:
sai remo? una cosa che non ho mai chiesto e voi scrittori e mi domando sempre, invece: ma come si scelgono nome e cognome di un personaggio?

Al personaggio del mio primo libro diedi il cognome di quel professore, Baldelli. E gli appiccicai un nome di battesimo, Luca, perché mi pareva suonassero poi bene, insieme, Luca con Baldelli.
Quel cognome, Baldelli, mi faceva risentire le voci di mio padre e di mio nonno.
Comunque.
E a volte, anzi no spesso, scelgo i cognomi inventandoli, e cercando, in questi cognomi inventati, o una certa musicalità oppure una mancanza totale di musicalità: punisco certi antipatici affibbiando loro un cognome brutto, insomma.

Ora sto scrivendo di un certo Limara… pensava Limara, si chiedeva Limara, si macerava dentro Limara.
Limara… amara: c’è assonanza.

Anna Antichi, invece, il personaggio della donna che parlava con i morti, ha un cognome ragionato. Studiato. Voluto. Una sorta di messaggio.

Su Famiglia Cristiana è uscita una recensione di Laura Bosio, sul mio libro. E Laura ha colto un aspetto importante della psicologia di Anna Antichi: è combattuta, si sente come lacerata: da una parte c’è il suo mondo, con gli aperitivi, le fighelesse (ome le chiama lei), le chat (che usa), dall’altro c’è il mondo, che Anna rimpiange, di suo padre, un anarchico alla buona. Ci tiene Anna, ad essere svegliata al mattino dalla vecchia sveglia che fu di suo padre, quelle che fanno rumore, tutta la notte, e che ti ritmano i sogni e i risvegli.

E mi fermo, ma vorrei rispondere anche a Morgan (che mi ha chiesto: Remo, mi pare sempre di capire, quando citi il tuo passato, che ci sia stata solitudine e rabbia, sbaglio?), ma son di corsa. Devo lavorare, poi stasaera devo andare presentare il mio ultimo libro (a Livorno Ferraris).
Cerco sempre, alle presentazioni, di dire cose diverse, cercano di rapportarmi anche a chi mi sta di fronte.
Un insegnamento, questo (di un certo Gian Renzo Morteo), che parte da alcune riflessioni sulla fruizione e sul teatro. E che sottende il rispetto del linguaggio e della cultura altrui.
Un conto è proporre l’Amleto a studenti universitari, un conto a degli operai.

E ora schiaccio su “pubblica” di questo blog e poi lavoro.
Brutta giornata, oggi: piove e fa freddo, qui in Padania.
Buona giornata, comunque.
E se ci son refusi scusate, come sempre. Ché ho scritto mangiano un toast.

intervista

Ha detto che, in fondo, con dosaggi diversi, siamo un po’ tutti santi e puttane, come Clelia.
Che non ci sono regole per scrivere una storia, perché ognuno deve cercare le sue, di regole.
Che sarò sempre dalla parte dei calpestati, le vittime della società ma anche le vittime dei propri pesi; ma ho anche detto che l’origine della mia scrittura arriva da dentro, dai miei fantasmi.
Poi ho detto di Anna Antichi, che magari è scostante, maleducata, per niente fine; ma io son stufo delle persone fini, beneducate che vivono pensando solo a se stesse.
E poi ho detto altro, in questa intervista.
Buona giornata

dacci oggi il nostro sfogo quotidiano

Son di corsa, oggi.
Grane, grane e ancora grane. E bocconi amari.
Chi può permettersi di fare la voce grossa fa la voce grossa.
E minaccia: attenti a quello che scrivete, attenti a non ledere la mia onorabilità.
Quando assunsi la direzione del giornale, tre anni, fa, scrissi che avrei dato voce a chi non ne ha.
E credo che questo, insieme al “raccontare piccole storie di tutti”, sia uno degli aspetti più qualificanti dell’informazione locale.
Comunque.
Così ho fatto, e ne vado fiero.
Risultato: grane, querele, minacce di querele.
Altro risultato: il giornale è cresciuto, più vendite insomma.
Altro risultato: nessuna forza poltica apprezza la linea del mio giornale.
Altro risultato: quando si tratta di cercare conferme, testimonianze, quelli che vengono calpestati e umiliati si ritrovano soli. Traduzione: io e loro.
Vedremo come finiranno queste grane.
Vedremo, vedrò: di sicuro non farà mai il giornalista che abbozza al potere, che abbassa la testa.
(Ma che chiede anche scusa quando sbaglia: perché facendo questo lavoro, a volte pressati dalla fretta, succede di sbagliare. Non sono infallibile, io. Il giornalismo è tutt’altro che infallibile. Ma i miei giornalisti lo sanno: nel dubbio, tante volte, ho preferito non pubblicare).
Comunque.
L’ho detto due minuti fa ai miei giornalisti: o si continua lavorare così oppure arrivederci, posso smettere anche domattina.
So fare il cameriere, per esempio. So, credo, correggere manoscritti, ho già curato un paio di editing. Ma posso anche, oddio se perdo qualche chilo è meglio, andare a vendemmiare, o pulire cantine. Cose già fatte, del resto.
E va bene così.

Passo ad altro.
(Passo spesso ad altro).
Sul blog di Massimo Maugeri – un bel blog, a mio avviso – da oggi si inaugurano le recensioni incrociate.
Oggi s’incrociano e si confrontano Sabrina Campologo e l’accoppiata Laura e Lory.
Buona lettura e buona giornata.

Ho finito la mia pausa panino. Torno alle grane. E al giornale.
Ancora una cosa: se scrivo di giornale è perché, per esempio, il contatore di questo blog mi dice che da Roma ho, certi giorni, anche 150 visite; ma da Vercelli, la mia città, ne ho cinque, dieci quando va bene. Non mi dispiace affatto queta non conoscenza di chi vedo, ogni giorno.
Mi dà come la sensazione del viaggio, il blog.