








Luoghi miei e vostri (potete-possiamo fare un gioco, mentale oppure scrivendo: per ogni luogo, almeno un giorno da ricordare, oppure no: un ricordo, ché il tempo mica conta quando le cose sono importanti).
Vercelli e la Valsesia e il fiume Sesia; Cortona (Piemonte e Toscana, ma ci sono anche altri luoghi della Toscane e del Piemonte in questa pagina, sotto)
Poi Orta. Orta senza dubbio.
Ma andiamo avanti, anzi, scendiamo in Liguria: Varigotti (e Borgio Verezzi), Vernazza, Boccadasse.
Poi le grandi città. Il centro di Roma, di Firenze, Torino (zona via Po, parco del Valentino).
Sermide (e il Po vicino a Sermide).
Il mare del Salento. Il mare del sud
Il mare della Maremma (Follonica, Castiglion della Pescaia, Scarlino.)
Torno indietro: Siena, che ha un fascino unico.
Infine. Un micropaese tra Vercelli e Alessandria che si chiama Due sture. Mai citato in nessuno dei miei libri, duecento abitanti, case diroccate, nessun negozio, vita zero, ma c’è un’osteria dove ho ambientato il primo capitolo de Lo Scommettitore e un capitolo, fondamentale, de La Donna di picche.
Un luogo, quell’osteria, quel micropaese, in cui torno spesso: i luoghi-calamita non devono essere “belli”: ci attraggano e basta…
Nei miei libri parlo solo dei luoghi che ho “respirato” almeno una volta (estero compreso: vedi Lugano o Narbonne).
Un discorso a parte lo meriterebbe la Sardegna: soprattutto Bitti… (come un discorso a parte meriterebbero certi libri che ci/mi hanno preso per mano e fatto conoscere luoghi, come la Milano del mio giallista preferito, Renato Olivieri. Io ci sono stato a Milano, tante volte, a vent’anni mi iscrissi per la prima volta alla Statale, anni addietro la domenica andavo spesso ai Navigli, ma è una città che mi sfugge, che sento troppo lontana da me. Poi c’è Simenon, poi c’è Izzo, che mi ha invogliato ad andare a Marsiglia… Ognuno di noi ha visto luoghi lontani leggendo: il mio primo ricordo è Salgari, quando avevo 15 anni. L’isola di Mompracen che – si è saputo una decina d’anni fa – non è un’invenzione. Salgari preso spunto da un principe ribelle che si asserragliò in un’isola per combattere gli inglesi.)
E comunque. Per anni nel dormiveglia ho sognato o di essere a Firenze, in piazzale della Signoria, mentre fumavo un toscano, oppure a Siena, all’alba.
Durante il lockdown invece ho sognato prima Cortona (per un semplice motivo: non potevo andarci, come faccio ogni anno a capodanno, carnevale, pasqua, luglio oppure agosto e quando capita) e poi Orta e la Valsesia. I luoghi de La suora, insomma. Nei giorni del lockdown era lì, a Orta e in Valsesia, che avrei voluto vivere.
La suora e La donna di picche hanno un forte legame con il Piemonte, Vicolo del precipizio, invece, è il mio omaggio a Cortona e alla cultura contadina… Ma Cortona, per me, è altro: quando ci torno incontro i miei sogni di quando ero ragazzo. Sono ancora lì, e mi guardano severi. Alcuni, son diventati rimpianti.
Io e Venezia, Bologna, io e l’abbazia di San Nazzaro, un gioiello tra Novara e Vercelli… mi fermo.
Luoghi, ricordi e giochi della mente.

A volte Modiano non sceglie la parola giusta, ma lo fa per lasciare uno spiraglio.
Trascrivo spesso frasi che mi colpiscono. Questa è di Irene Babboni, morta nel 2017 a soli 49 anni, che di Patrick Modiano fu editor a Einaudi.
Una frase che fa pensare. Non scegliere la parola per giusta per… lasciare un varco.
(Le presentazioni dei libri servono. Anni fa, dopo, appunto, una presentazione di un mio libro-non-ricordo-quale, mi parlarono di Modiano, che da allora è diventato uno dei miei scrittori preferiti. Il primo che lessi fu “L’era delle notti”
A proposito di scritture.
Da anni io faccio una selezione. Ci sono scritture che mi “nutrono”, insomma, che mi fa bene perché fanno bene alla mia scrittura.
Pensate alla musica. Immaginate di essere un pianista. Ascolterete altri pianisti. Scegliendo il meglio, insomma.
E poi ci sono scritture che non danno niente o che, addirittura, fanno male. Scritture stonate, insomma.
Tra le prime scritture non ho trovato solo dei grandi scrittori, come Modiano, ma anche scrittori meno o poco noti.
Ribadisco: la scrittura è un incontro.
Non consiglio di leggere Modiano, io. Io dico solo che, secondo i miei parametri e il mio vissuto, la scrittura di Modiano mi ha “toccato”
Anno 2006, Salone del libro.
Vado a Torino, anzi no, pernotto a Torino in un albergo in San Salvario. Ho in programma di vedere un po’ di persone. Giulio Mozzi, che ancora non conoscevo, alcuni amici (Mario Bianco, Milvia Comastri, Laura Costantini), alcuni blogger. Ma soprattutto vado al Salone sentendomi – timidamente e per la prima volta – uno scrittore.
Al Salone ci sono infatti due miei libri: Dicono di Clelia, stand di Mursia, e Lo scommettitore, stand di Fernandel.
Due libri in una sola volta: e quando ancora capiterà?, pensai.
Si imparano tante cose, al Salone.
E si vedono tante cose. Scrittori che vanno in giro, poveretti, a vendere qualche copia del loro libro. Scrittori affermati che, più poveretti ancora, se la tirano e non danno la minima. Per poi sorridere a 32 denti a critici ed editori…
S’impara che è un casino fare pipì, soprattuto per le donne.
Ricordo questo. Vado in bagno (ho la vescica sensibile, da sempre) e l’attesa nei bagni degli uomini è quella di sempre al salone: lunghetta ma accettabile.
Pisciatine e pisciate veloce con relativa scrollatina, dipende dalla prostata.
Ma al bagno donne, quel giorno (era un sabato) c’era una coda infinita. Come le code interminabili di quelli che vanno a farsi fare un autografo da un Baricco o da un Travaglio qualsiasi.
A un tratto una donna, una bella donna tra i quaranta e i cinquanta, gonna e camicetta nera, si scoccia. Lascia la coda-donne e, decisa, a testa alta, sguardo fiero, si dirige verso il bagno-uomini. E non si degna nemmeno di fare la coda, macché. Mette la freccia, sorpassa tutti e – tra gli sguardi compiaciuti dei presenti – spalanca la porta di un gabinetto.
A proposito di sguardi compiaciuti. Anni dopo, non ricordo l’anno, ricordo solo che c’era Coelho, sono fuori che fumo il mio mezzotoscano. A un tratto vedo che c’è movimento, a pochi metri da me. Incuriosito mi alzo, e penso: che ci sia Coelho (che a me piace zero)? Macchè. Il pubblico, mi accorgo, è di soli uomini che hanno occhi per una giovane donna con minigonna spaziale e schieda tutta nuda (come fosse davanti non feci in tempo a vederlo…. Sono gli extra questi, del Salone.
Torniamo al 2006. Io staziono allo stand di Fernandel. Ci sono 20 copie del mio ultimo libro (Lo scommettitore) e lì capisco quanto sia importante una buona copertina: perché la gente che passa di fretta e dà un’occhiata è tanta, ma, in genere, guarda solo alcune copertine. La mia? Attirava poco.
E tu ti senti una copertina, una delle tante.
Ultimo ricordo, a cui do un titolo: la crudeltà.
Un signore in là con gli anni, tra io settanta e gli ottanta, parla con una donna un po’ più giovane ma nemmeno tanto. Lui ha scritto un libro, lei, che è un’editor o qualcosa del genere, gli spiega perché quel libro non verrà pubblicato. Un elenco infinito di questo non va e quest’altro non va, mentre l’uomo, sudatissimo, non proferiva parola e avrebbe preferito sprofondare, anche perché quella – stronza – mica parlava a bassa voce. Anzi.
C’erano due libri miei nel 2006, al Salone.
Quest’anno credo che saranno tre o forse quattro.
Ci saranno di sicuro:
Forse non morirò di giovedì, stand di Golem.
La suora, stand di Golem.
La donna di picche, stand di Fanucci.
Volevo fare un salto a salutare il mio editore, comprare qualche libro, ci avrei tenuto a incontrare qualcuno, fare la coda al bagno, fumare uno due tre mezzitoscani fuori. Poi ho pensato: facciamo un’altra volta.
È da anni che vado a Orta. Orta, il suo lago con la sua isola. Orta e i suoi vicoli. Orta una sera d’inverno, deserta, senza turisti. Orta, città del poeta maledetto Ernesto Ragazzoni.
È finita. Il giornale è stampato,
la rotativa s’affretta,
me ne vado col bavero alzato,
dietro il fumo della sigaretta.
Quando ero piccolo i miei mi ci portavano poco, le nostre domeniche avevano altre destinazioni che prevedevano un picnic che odiavo (mi vergognavo a mangiare su un prato), ma da trent’anni a questa parte Orta e il suo lago sono una meta ricorrente. Specialmente quando non c’è turismo.
A Orta è ambientato il primo capitolo dell’ultimo libro scritto, La suora.
Un capitolo a cui tengo molto. Lo scrissi durante il primo lockdown, lo scrissi sognando di essere a Orta e di chiamarmi Romolo Strozzi. Volevo fuggire: dal lockdown e anche da me.
L’intervista è a cura di Rosangela Colombo. Che ringrazio per l’intervista.
Ne farà di altre, sempre sul suo canale instagram, roseange.eventi
Poi. Mentre scrivevo La suora sono andato a Orta, una volta. Stavo scrivendo il finale. Ci sono tornato per questa intervista, dopo mesi (maledetto lockdown).
Il video (20 minuti)
Quattro, cinque volte all’anno percorro i quasi 500 chilometri che separano la città in cui vivo da quando avevo due anni, Vercelli, al paese in cui sono nato, Cortona, cittadina etrusca al confine tra Toscana e Umbria.
Dopo aver percorso 332 chilometri vedo l’uscita autostrade Pian del voglio (provincia di Bologna).
Da Pian del Voglio a Cortona mancano ancora 163 chilometri, meno di 2 ore di auto se non ci sono code.
Io sono nato nel 1956, il mio vecchio nel 1927, mio nonno Giuseppe, mezzadro, nel 1880.
Altri tempi, altri modi di vivere.
Mio padre si ricorda che suo padre, mio nonno insomma, negli anni trenta del secolo scorso da Cortona, a volte, andava a Pian del Voglio per acquistare dei buoi.
Saliva su un mulo e impiegava 3 giorni per andare e 3 per tornare.
Sei giorni. Cortona-Pian del Voglio andata e ritorno. Lui sei giorni cavalcando un mulo, io quattro ore in auto.
Il tempo mi/ci appartiene.
Quante strade, quanti boschi, quante osterie, quanta gente avrà incontrato mio nonno Giuseppe in quei tre giorni di sola andata e negli altri tre del ritorno?
Perdeva del gran tempo, lui, viviamo nell’era delle velocità.
Giorni fa ho ascoltato un dibattito su facebook tra alcuni psicanalisti.
L’era in cui viviamo si sta impossessando del nostro tempo, ha detto uno di loro.
La musica, ha aggiunto, è fatta di tre momenti: suono, pausa, suono.
Ci stanno abituando a vivere senza la pausa, ha concluso.
(Senza musica, insomma…)
Vent’anni fa si sarebbero ritrovati a discutere in un luogo concordato e poi sarebbero andati a cena e poi avrebbero pernottato in albergo per poi ripartire, l’indomani.
Tanto tempo perso, già…
Il dibattito che ho seguito è questo. Lungo, ma da vedere. Spiega il nuovo mondo che ci attente. Senza musica. Di estremo interesse quello che ha detto lo psicanalista Emilio Mordini.
Uno scrittore, io credo, deve essere sempre contro.
Contro i luoghi comuni, contro le cose ingiuste, contro il potere che spesso è, per sua natura, ingiusta. Ma non deve dire quello che pensa, come se fosse il vangelo. Deve limitarsi a raccontare,. Ma con onestà.
Onestà significa questo per me: tu lettore sai come la penso, ma non ti sto insegnando nulla, ti racconto solo quello che ho visto e che ho scelto poi da raccontare. Poi, tu lettore, decidi se apprezzare o prendere le distanze oppure solo – che è forse la cosa migliore – pensarci sù.
Quando iniziai a scrivere La suora eravamo in pieno lockdown.
Mi feci una domanda: tu leggeresti un romanzo ambientato in questi giorni di certezze, incertezze, paure, accuse? No. Non avrei né letto né comprato un libro ambientato ai tempi della Sars Covid due e dei dibattiti eccetera.
Eppure io ho quasi sempre scritto i miei libri ambientandoli o ai giorni nostri o comunque in un arco di tempo contemporaneo. Vicino a noi.
Mi capitò però di leggere una cosa che scrisse Loredana Lipperini: che gli scrittori raccontano le sciagure dei propri giorni. Pensai che aveva ragione.
La suora è dunque ambientata anche durante il primo lockdown.
Il protagonista, Romolo Strozzi, vive da solo in un bed and breakfast di Vercelli. Descrive la città deserta, il coprifuoco. Descrive le sue paure (è ipocondriaco… come me) quando legge sul suo computer le notizie che giravano allora. Da depressione assicurata. Per tutti. Esagerate, anche.
Si ribella. E quando incontra un vecchio medico ascolta lui. Cosa dice questo medico? Una cosa semplice, dettata dal buon senso: di stare il più possibile o in strada o sul balcone, prendere il sole, muoversi, migliorare insomma il proprio sistema immunitario. Di ribellarsi insomma a quel “io resto a casa”.
Perché scrissi questo. Perché quel medico esisteva ed esiste davvero. Non è un no vax. Ma non segue pedestremente quello che dice il potere che va a braccetto con una parte di scienza. Ma lo scrissi ripensando ai miei diciassette anni quando vivevo in una casa di 45 metri quadri con mio padre (operaio cassintegrato), mia madre, mia sorella (8 anni) e mio fratello, appena nato.
Quel “io resto a casa” non lo digerivo. E Romolo Strozzi, che di professione fa il venditore abusivo di formaggi (buoni, senza aggiunte di ormoni o antibiotici) dell’alta valle è anche collaboratore di un giornale da poco. Che gli pubblica un articolo intitolato: Io resto a casa, fanculo.
Lo scrive, Romolo Strozzi, perché vicino a lui c’è una famiglia povera che vive il lockdown appunti in una casa a ringhiera di 45 metri quadri.
Io resto a casa, fanculo, è un mio post apparso su Il Fatto quotidiano (lo scrivo nei ringraziamenti de La suora) e in questo blog.
Questo il link del post sul Fatto online.
Chi ha letto il libro dice però che il lockdown sta sullo sfondo, che insomma non è uno degli argomenti trainanti. In effetti non lo è. Ma scrissi quel che dovevo scrivere. Raccontando anche le sciagure dei nostri giorni.
Ne avessi voglia comincierei a scrivere qualcosa che potrebbe diventare un racconto, un romanzo oppure niente. Che è cosa che succede spesso, almeno a me.
Perché sto scrivendo questo. Allora. È successo questo. Prima sono andato a fare la spesa. Ci vado mai, impiego tanto, spesso prendo cose che non servono. Avevo delle urgenze, però, prima (sabbia per la lettiera del gatto, acqua, latte di capra) e anche un po’ di fretta. Quindi dopo aver acquistato mi metto in coda davanti una cassa, a caso. Non c’è la solita cassiera che conosco (volontaria in un canile) né altre che conosco di vista. C’è un ragazzino, forse è il suo primo giorno. Ed è in difficoltà. Mi chiede scusa, ma ha dei problemi, sta aspettando che una sua collega lo aiuti, e quindi mi chiede, sempre scusandosi (Ma figurati dico io), di attendere.
In questi casi si possono fare diverse cose. Parlare con un’altra persona in coda, perdersi nei meandri dello smartphone, oppure, e a me succede sovente quando sono in coda, pensare a una storia.
Non ne avevo, stamattina.
Però, mentre aspettavo, mi è venuto in mente il mio primo cane, Barone. Era buonissimo, giocherellone. Non litigava con gli altri cani, faceva la feste a tutti. Un giorno però si perse. Per una settimana nessuna traccia. Tornò, e ne fui felice, era il mio primo cane, era il regalo che mi era fatto per la mia laurea (tardiva, a 35 anni). Ma Barone non era più lo stesso. Aveva paura del genere umano. Divenne anche un po’ aggressivo, morsicò anche due uomini. Dovetti ricorrere alla museruola, al veterinario che mi diede una cura per abbassare il livello di testosterone….
Ne conosciamo tanti di Barone con sembianze umane. Persone sorridenti e sensibili a cui un giorno succede qualcosa di brutto. E loro perdono tutta la fiducia che avevano nel genere umano.
Prego, accomodati, tu sei il primo personaggio, ho pensato.
Poi c’è la donna con gli occhi persi. Ci sono donne che vengono sorprese dal marito mentre sono a letto con l’amante. Alla donna con gli occhi persi è andata peggio: a soprenderla è stata sua figlia, che da allora non le parla più e non vuole più vederla. E nei suoi occhi c’è quel momento, maledetto. Un momento di piacere che diventa l’inferno.
Avanti, sei il secondo personaggio.
E poi c’è quel mio compoagno di scuola che non sopportavo. Lui non andava bene, diciamo che era un po’ come me: collezione di cinque al sei. Aveva una caratteristica. Odiosa. Se qualcuno veniva interrogato e prendeva un brutto voto lui sogghignava contento. Ogni volta che penso a lui penso “Coglione”. Viene avanti, sei il terzo personaggio.
Il quarto mi verrà scrivendo.
Ma io queste cose che ho scritto dei miei personaggi non le dirò subito. Le dirò poi. Vedrò in che modo. Perché quando si scrive una storia è importante il “dosaggio” degli aggettivi, degli avverbi (se non servono, meglio gettarli via) e del passato dei personaggio in cerca d’autore o di una storia.
PS Non credo che scriverò. La spesa l’ho fatta. Credo d’aver comprato troppo latte di capra e poca acqua. Ma ho comprato anche un formaggio (si chiama Alpino) che mi comprava sempre mia mamma, quando ero ragazzo.
La vita dopo la morte. C’è. Non c’è. Non si sa. Altra risposta, questa (da Forse non morirò di giovedì, Golem)
«Simona, lo sai, io credo in Dio e credo che ci sia un aldilà. Giorni fa ho però pensato che a me di andare in paradiso non importa. Il paradiso sei tu, è questo bar, è la nostra colazione.»
Era scoppiata a piangere, lei, e quel giorno fu un grande giorno. La sera a cena, poi una lunga notte di carezze e di parole dolci. Ma il senso di insoddisfazione sarebbe tornato presto, un po’ come certe malattie di cui non ci si libera.
Se te ne sei andata la colpa è anche colpa mia, lo so bene.
Ho scritto e detto che tra me e Romolo Strozzi, io narrante del mio libro La suora, c’è una grande somiglianze: entrambi non abbiamo radici.
Sono nato in collina, a Cortona, tra Toscana e Umbria, poi a due anni mi hanno portato a Vercelli, dove sono cresciuto e dove, a volte, mi sembra d’essere nato, soprattutto se guardo lo spettacolo delle risaie allagate, ma solo a volte, ho scritto, perché è come se, quando sono a Vercelli, vivessi nell’attesa di tornare Cortona, dove son nato, almeno un po’…(Durante i giorni delk lockdown sognavo di camminare per i vicoli di Cortona…)
Ma poi c’è il mare.Il mare che conosco è quello ligure, a Varigotti, oppure a Celle, oppure a Vernazza, anche Boccadasse, quello toscano, Follonica o Castiglion della Pescaia, quello del Salento…
Il mare dicevo.
Non mi piace stare in spiaggia, il bagno lo faccio a volte sì e a volte no, odio il ferragosto, il casino. Ma al mare, io rinasco. Se vado a dormire alle 4 di notte poi alle 7 sono sveglio per una passeggiata col cane, in riv al mare, aspettando che apra un bar. E respiro l’aria del mare a pieni polmoni.
Ed ho la consapevolezza – che è cosa rara per me – di stare bene.
Non solo. Dopo la seconda dose Pfizer soffro di acufeni (e non solo). Ma non quando vado al mare.
In un libro (Bastardo posto) il mio protagonista sogna di lasciare una cittadina del nord per andare a vivere in un paese, nei mari del sud, scrissi.
Vivrei in un posto di mare. Forse perché non mi stanco mai di guardarlo, il mare, anche quando è infuriato e fa paura.
Sto scrivendo una storia di calcio e d’amore, ma non so né se la finirò né se andrò avanti.
Diciamo che sono abbastanza stanco di pubblicare libri: la prima volta che pubblichi, che accarezzi una copertina di un tuo libro, pensi di aver fatto qualcosa di grande, di importante, ma poi, quando arrivi alla decima, sai che non hai fatto niente. Sei uno dei tanti.
Il primo libro, già. Sognare di scriverlo, dirlo a qualcuno e leggere negli occhi di questo qualcuno – che non sia né un tuo caro amico né un tuo parente – solo scetticismo. A volte peggio. A volte la gente ci gode a dirti che.
Ricordo quando mi iscrissi a Lettere. Avevo 26 anni, lavoravo in fabbrica. Lo dissi a un ragazzo che conoscevo, uno studente universitario che si ammazzava di studio e che faceva incetta di trenta e lode.
Mi sono iscritto a lettere, gli dissi:
Parlammo un po’. Poi lui mi disse: Non credo che ce la farai.
Mi fece rabbia ma fu uno stimolo in più.
Anche un insegnamento. Quando ricevo il manoscritto di un aspirante scrittore in genere ci vado cauto con i giudizi. Ma se quello che leggo mi convince un consiglio lo do: credi in te stesso.
Poi che sarà sarà…
Quando ero piccolo mi terrorizzava, bastava un suo sguardo.
Dovevo essere ordinato e puntualissimo: Se ti ho detto che devi tornare a casa per le sette, devi arrivare almeno con cinque minuti di anticipo.
A volte, questa mia dura madre, era esasperata: e ricorreva al battipanni.
Picchia, le dicevo, fingendo di non aver paura di lei; invece ne avevo, e mi sentivo solo e abbandonato quando non ero protetto dalla complicità di mio padre (ce n’erano anche per lui di rimbrotti).
Ha avuto una vita di inferno mia madre.
Di tanta povertà e di tanta, troppa, sensibilità.
Figlia di mezzadri, da piccola andava a “guardare le pecore”, oppure i maiali. Quando arrivava il momento di far festa, perché si ammazzava il maiale, lei scappava via, e piangeva. Di nascosto, sempre. Perché bisogna essere forti…
Dura, durissima madre.
Leggi e studia, leggi e studia, mi dicevi.
E non ti lamentare, mi dicevi sempre, ché c’è sempre chi sta peggio di noi.
E non ti lamentare se hai mal di pancia, “non fiezzare”, che non serve. Non serve piangere.
Non pianse, lei, quando le morì un figlio, mio fratello Fabrizio. Avevo sei anni. Non un lacrima ma poi, quando vide che la piccola bara bianca veniva ricoperta di terra nera, le gambe cedettero e fu sorretta da mio padre. Solo un attimo, ché si riprese, poi.
E non pianse nemmeno quando, solo due anni fa, perdette un secondo figlio. Nessuna lacrima: mai di fronte agli altri.
E poi ci sono io, vero mamma?, che ti ho fatto piangere tante volte. Anche negli anni scorsi…
Speravo che crescessi, ma non cresci mai, mi dici. Fortuna che hai avuto Silvia, la mia sorellina. Che ti ha inondato d’affetto.
Tu non hai famiglia, sei uno zingaraccio, mi dicevi, severa e adirata, quando ero piccolo.
(Ricordi quanta paura ti feci prendere quando, a sei anni, scappai di casa per ore e ore? Risento il tuo abbraccio, quando mi rivedesti).
Ora non è più una dura madre. E’ un madre mite.
Sono stata troppo dura con te, mi dice.
Mamma, sai che su un cosa che si chiama blog ho scritto di te, e dei cantastorie.
Non ha detto nulla, mia madre, mentre le dicevo “ho scritto di te”.
Giorni fa mi si presenta davanti. Con un bloc notes.
Mi dice: Lo sai che io non ho scuole e faccio gli sbagli.
Leggo.
Ci sono i canti che da ragazza aveva imparato.
Nel tempo che dei guelfi e ghibellini….
E ci sono storie contadine, d’amore e di povertà.
Ha fatto solo la terza elementare mia madre. I suoi genitori, analfabeti, la sgridavano: perché nel quaderno di matematica sprecava carta, c’erano troppi spazi bianchi tra un’operazione e un’altra.
Solo la terza elementare fatta nei giorni pari, perché in quelli dispari c’erano da guardare i maiali, ma, mentre leggo, vedo che i congiuntivi son giusti. Perché mia madre sapeva ascoltare “le belle parole della gente istruita”.
Basta orecchio, a volte.