Quattromani
Sono andati, passati, i tempi in cui si viveva. Adesso è solo una lunga attesa. Attesa poi di cosa non ci è dato sapere. Se finora non ha gettato tutto è perché ogni tanto le piaceva venire a piangere sui ricordi. Ora non fa altro. Che piangere. La sento. Di là. Le sue mani, quelle mani bianche, lunghe e ossute, così eleganti, così curate, sensuali, non profumano più di limone. Sanno di fumo stantio e disperazione.
Siamo arrivati in questa casa con Lui, dentro un grazioso pacchetto di carta blu. Le aveva detto, mentre lei ci estraeva compiaciuta e felice, che con noi non avrebbe mai avuto freddo. Capretto bianco ammorbidito come si deve, lavorato dal migliore guantaio della città, rinomato anche oltre confine. Sottili, delicati e abbelliti da una fila di piccoli bottoni di madreperla a chiudere i lembi sull’esile polso, creando un’asola in cui Lui amava passare il dito accarezzandole la pelle sensibile. E lei era percorsa da brividi. Come sono caldi, aveva sussurrato quella volta, indossandoci e facendoci assorbire il suo lieve profumo.
Siamo stati regalati per le ore d’amore. Siamo stati testimoni delle carezze fatte in parchi invernali. Eravamo le sue mani di battaglia, della sua personale battaglia d’amore. La sua seconda pelle. E ricordo come scivolavamo sulle dita bianche, lisce, sottili.
Ne abbiamo fatte di cose insieme. Era eccentrica, senza limiti, teatrale. Così unica. Così irresistibile. Speciale. Tanto da poter indossare guanti di pelle candida, le aveva detto Lui. E davvero si voltavano tutti a guardarla quando camminava per strada. Erano tempi di splendore. Di spensieratezza.
E lei era così presa. Persa. Di Lui, per Lui. Era felice in quei tempi, era innamorata.
Vorrei avere ancora il mio compagno. Chissà che fine ha fatto. L’ultima volta lo vidi sul sedile dell’auto mentre Lui le stava spezzando il sorriso. Credo lei abbia dimenticato lì il mio gemello e anche se stessa. O almeno i suoi sogni e la speranza. Quando siamo stati separati e mi sono trovato a essere un ricordo doloroso da chiudere in un cassetto, l’inverno stava finendo e non faceva freddo, ma lei ci aveva indossato ugualmente. Hai belle mani, perché le copri sempre? aveva detto Lui insofferente, quando eravamo arrivati al parco, di fronte allo stagno, dove era solito aspettarla. Sai che indossarli mi ricorda te, sono caldi, aveva risposto lei, con voce pacata. Ma quella fu la mattina in cui tutto naufragò contro gli scogli aguzzi dell’incomprensione. All’improvviso Lui era cambiato, non era più così sicuro.
E lei soffrì molto. Uscì veloce dall’auto parcheggiata sulla riva scappando fra gli alberi, dimenticando il mio compagno.
Mi usò per asciugarsi le lacrime, venni appallottolato nella borsetta, scagliato sul tavolo di casa.
Un giorno di sole come lo è oggi, mi ha preso con delicatezza, come se il dolore e la sofferenza avessero trovato un luogo mite nella sua mente dove riposare, e mi ha deposto con cura in questo cassetto.
Ora è il nulla di ore interminabili ad ascoltare i rumori di fuori e i sussurri degli oggetti che sono qui. Andati, passati. Delle volte mi perdo nei bisbigli delle lenzuola riposte in altri cassetti che raccontano storie di letto. Ricordi, solo ricordi. Nulla più.
Al buio, con il pelo del collo del cappotto che copre il mignolo, le piume stanche del boa sul palmo bucato.
Quando mi ha messo qui dentro lo ha fatto con attenzione, non mi ha gettato in malo modo come è capitato alla cintura di seta o alle calze verdi, mi ha steso in un angolo, quasi fosse un rituale. Ha sospirato e poi ha chiuso il cassetto.
Sarebbe stata dura, per Lei, separarsi definitivamente da me. Il cassetto ogni tanto lo si può aprire.
In questo caos di lacrime e sorrisi io sono senz’altro il ricordo più dolce e doloroso. Il boa spennato è il retaggio di una festa di fine anno, il collo d’ermellino una fugace vestigia da mercatino delle pulci, la cintura, le calze, la penna stilografica sono solo oggetti dimenticati, ma io rappresento il ricordo più intenso e passionale. Non il solo, certo. C’è il guanto bianco. Ma io racchiudevo, proteggevo la mano di lui.
Un tempo, eravamo in due e avevamo un senso di funzionalità. E’ stato lui a comprarci, in un laboratorio di una simpatica magliaia che cantava l’Aida mentre ci creava. Ci ha presi insieme a Lei, è stata Lei che ci ha scelti. Diceva che anche lui doveva indossare guanti per le carezze d’inverno. Le piaceva la morbidezza del nostro tocco sulla pelle, le dita passate tra i suoi lunghi capelli. E lui ci usava per racchiuderle il viso nel calore della lana riparandola dal vento. Riscaldandole le gote e il respiro. Erano felici. Fino al giorno in cui lacrime e dolore hanno invaso l’abitacolo dell’auto. Quando Lei ha aperto il cassetto del cruscotto per cercare un fazzoletto capace di arginare quella sofferenza, per sbaglio mi ha afferrato. Nessun fazzoletto nel cassetto, ma nel caos del momento mi ha riposto in borsa e non vicino al mio pari. Ore dopo, a casa, quando mi ha trovato, mi ha scagliato con rabbia per terra, sventrandomi il palmo con le unghie, per raccogliermi subito dopo e annusarmi cercando tra le mie pieghe tracce di lui.
E ora se ne sta di là. Tra fumo stantio e disperazione. Forse se pensasse che lui, quella sera, trovò nell’auto due di noi, quattromani di un amore invernale, e che lui da quella sera custodisce con nostalgia due di noi, quattromani di un perduto amore, forse si asciugherebbe le lacrime con quelle sue belle dita e uscirebbe a passeggiare nel caldo sole d’autunno.