Raccontiaquattromani/24

Il sonno della ragione

“Adesso ti metto a dormire, Sara, ma considerato il fatto che il lettino della Barbie è troppo piccolo per te ed è anche un po’ rotto, ti metto in una scatola da scarpe.”
Martina aprì l’armadietto e ne tolse una scatola grigio/argento con scritte impresse in rosso. Era vuota.
Sara però non ci stava, era troppo lunga. Martina optò per una scatola più grande e nel prenderla fece cadere l’intera pila di scatole di cartone e scarpe di varia foggia e colore caddero a terra mescolandosi. Per terra si sedette anche Martina, piagnucolando un po’. Quanto disordine! La frana di cartone l’aveva inoltre spaventata e non poco, ma tutto era accaduto e terminato nel volgere d’un attimo. Poco male.
“Non spaventarti, Sara e non piangere, sei una bambina forte e coraggiosa”.
Martina rimise a posto alla rinfusa tirando su con il naso. In fondo la scatola prescelta meritava quel caos, era capiente e dentro aveva tanta soffice carta velina bianca, era adatta alla sua bambola Sara, che la fissava con lo sguardo azzurro di sempre e le labbra imbronciate e appena dischiuse.
“Ecco, la mamma ora ti cerca una copertina”.
La scelta fu facile, Martina andò in cucina e prese un tovagliolo. La dimensione era giusta ed anche il colore, pensò, le margherite bianche stavano molto bene su una coperta per bambole grandi. Erano infatti margherite grandi. In cucina c’era ancora la mamma distesa per terra, stava dormendo, Martina aveva provato a strillare forte per svegliarla, ma non era successo niente, la mamma continuava a dormire sul pavimento. Era tanto stanca, aveva litigato per due giorni interi con il papà, prima che lui prendesse delle cose a casaccio per riempirne una borsa da viaggio. Quella grossa, nera, che usavano per andare al mare d’estate ed anche in Toscana dalla nonna.
“Sì, sarà andato al mare, il papà, oppure dalla nonna in campagna”.
In TV Martina aveva visto svegliare chi dormiva profondamente con una secchiata d’acqua, ma lei non l’avrebbe fatto mai, perché la mamma si sarebbe arrabbiata moltissimo. La mamma così arrabbiata non le piaceva, si mordeva il labbro inferiore e restava col muso per ore, poi però faceva una torta e le passava. Martina non aveva voglia di mangiare la torta facendo dapprima arrabbiare la mamma. Si sarebbe svegliata al ritorno del papà per portarle al mare. O dalla nonna.
Non restava che aspettare e, visto che la mamma dormiva, andare a prendere in salotto una caramella al liquore, che veniva offerta agli ospiti adulti e mai ai bambini, perché intanto a loro non piacciono.
A Martina invece piaceva, ma dopo che il liquore aveva pizzicato il naso ed era sceso giù in gola e restava soltanto il sapore dolce dello zucchero.
Era il silenzio la cosa che la disorientava di più.
Quando la mamma e il papà erano insieme c’erano sempre tante parole, spesso urlate, spesso erano quelle parole che la mamma le vietava di pronunciare. Adesso Martina guardava Sara e invidiava la sua beffarda indifferenza. In realtà non era spaventata, la sua bambola. Non aveva pianto. Era rimasta uguale a se stessa, come la mamma. Avevano entrambe gli occhi azzurri, la testa scarmigliata.
La mamma era ancora sdraiata sul pavimento, immobile, addormentata. L’unica differenza tra lei e Sara era che la bambola aveva gli occhi spalancati: vedeva, osservava, non le sfuggiva niente. Chissà se alla mamma, da sveglia, sfuggiva qualcosa. Qualche particolare importante. Comunque, rifletté Martina, è sicuramente più riposante dormire a occhi chiusi.
Martina si accorse, non appena ebbe completato quel pensiero, di avere sonno anche lei. Accantonò l’idea di adagiare Sara nella scatola grande e, tenendosela stretta al petto, si accucciò accanto alla mamma. Per un momento rimase seduta, a gambe incrociate.
La mamma era pallida, però perlomeno era serena. Aveva fatto bene a non insistere per svegliarla: aveva bisogno di starsene un po’ tranquilla.
Martina si sdraiò accanto a lei, le prese la mano. Le sue dita le parvero d’un tratto creature flaccide e informi. All’improvviso ebbe paura di quelle mani così arrendevoli. Gliene strinse una, intrecciandola alla sua, ma la mamma non reagì carezzandole il dorso della mano con il pollice come era solita fare.
Martina si staccò dalla mamma sobbalzando.
Prese Sara e la mise tra sé e la donna. Sistemò la mano della bambola sotto quella della mamma.
Poi rimase a occhi spalancati, distesa sul pavimento. Meglio dormire a occhi aperti, dopotutto.
Non voleva che le sfuggisse niente. Non le sarebbe più sfuggito niente.

sotto il castello

Il forestiero che arriva a Vercelli per la prima volta resta impressionato dalla bellezza di un castello, con ponte levatoio. E’ il castello Visconteo, che fu anche dei Savoia.
Per i vercellesi, però, quel castello non è un bel castello: è solo il tribunale, quello.
Da evitare, se possibile.
Sotto il ponte levatorio, e lungo il fossato che delimita il perimetro del castello, ci sono degli orti, ben curati, non so da chi.
Nei giorni scorsi una gattara mi ha mostrato una cosa.
Ci son anche delle galline, lì.
Non sono sole. Da un annetto hanno adottato un gatto (quando l’ho raccontato a zena-colfavoredellebbie quasi non ci credeva) che, riconoscente, ogni tanto va a sdrusciarsi a quelle galline, contente di farsi sdrusciare.

Poco distante c’è un bar. Frequentato da… ragazzi. Non so dire che ragazzi siano. Penso studino, penso stiano bene, ché han macchine o moto.
Una volta il mio vecchio mi disse che alcuni di quei ragazzi son delle teste di minchia.
Gli chiesi, Perché babbo?
Perché quando passo in bicicletta cercan di farmi cadere, mi rispose.
Non ci feci caso. So che a volte esagera. So che saprebbe difendersi. Fino a pochi anni fa, una decina penso, era ancora in grado di sollevare un quintale da terra; e ogni tanto, dice: Se solo avessi dieci anni di meno (settanta quindi).
(L’ultima che ha detto è questa, un paio di mesi fa. Se ad agosto sono ancora vivo vado a Follonica e mangio una forma di pecorino al giorno. E’ ancora vivo, è a Follonica. Una forma no, ma mezza al giorno penso proprio che se la mangi).
Comunque.
Una gattara mi ha raccontato che un giorno alcuni di questi ragazzi hanno ucciso a calci un gatto.
Se ne imparano di cose, cercando gatti.

Raccontiaquattromani/23

Maria

Al pranzo di Natale mia madre invitò tutti i parenti.
Rifiutò solo la vecchia zia di mio nonno: chiusa in una casa di cura, centoquattro anni, ricordata solo se si parlava di eredità. E parlare d’eredità, be’, era la caratteristica dei miei parenti.
Alle riunioni di famiglia, sotto Natale, si deve essere pronti all’ordine, alla fatica, all’esaurimento. Una catena di montaggio, oppure un’esercitazione militare, ognuno con un compito: io dovevo sistemare cappotti e soprabiti di chi arrivava in camera da letto e tenere chiuse a chiave tutte le stanze. Mia madre non voleva che i bambini giocassero soli nelle camere o che qualcuno potesse entrare nelle stanze per frugare tra le nostre cose. Quindi ogni porta aperta poi veniva chiusa con un paio di giri ben decisi, e la chiave finiva sopra il frigorifero in cucina: mi sentivo San Pietro. Uscii in giardino a farmi una canna – non potevo resistere a una serata del genere senza un tocco di marijuana- e chiusi persino la porta di casa, rientrando. Poggiai le chiavi sul frigo, in alto, con le altre.

La cugina Adele durante le lasagne aprì la bocca, la pasta triturata tra i denti, e disse:
-Quando muoio brucio tutto e a voi lascio niente. Tiè.
Poiché era famosa per ubriacarsi con un crodino, nessuno la ascoltò davvero. Ma quel “Tiè” attirò l’attenzione di mia madre, che inarcò un sopracciglio: io seguii il suo sguardo, rimanendo affascinato dal cibo masticato in bocca ad Adele che ripeteva a voce sempre più alta “A voi non lascio niente di niente brucio tutto e poi mi ammazzo. Tiè“.
Il brusio calò piano. Adele aveva tutte le cose dei trisavoli. Incartamenti. Foto. Lettere dal fronte, medaglie al valore. Porcellane, lenzuola ricamate. E niente era mai uscito da casa sua. Aveva foto mie che mia madre neppure ricordava di aver scattato. Nubile, unica figlia della sorella di mio nonno Mario e cugina prima di mia madre e delle mie zie: alla sua morte ci saremmo scannati, mamma vittoriosa su una collina di parenti cadavere, in mano un quadro e nell’altra un centrino.
-Ne parliamo un altro momento e comunque non è giusto che ti tieni tutto tu, uno di ‘sti giorni vengo da te e guardiamo assieme le cose.
Mamma Annamaria dice.
-Quando vai me lo dici che vengo anche io, comunque quello che prendi tu devo vederlo anche io.
Zia Luisamaria puntualizza.
-E io, che sono, la figlia della serva? Comunque il cavallo di ceramica è mio.
Zia Mariarosa risponde.

Mettere in tavola un coltello di venti centimetri per affettare il roast-beef è pericoloso. Non contando una cugina adolescente interessata solo al suo cellulare, due cuginetti impegnati a farsi dispetti e un tizio così fatto di maria da parlare con la bottiglia di vino davanti a sé, c’erano dieci parenti e un coltello lungo e affilato: Adele fu la più veloce. Zia Mariarosa gorgogliò cadendo dalla sedia.

Io mi ricordo solo di aver messo le chiavi di casa da qualche parte, o sul top del frigorifero oppure nel vaso del ficus in ingresso. Adele ha appena fatto fuori anche mia madre, mio padre e ora ce l’ha con zia Luisamaria.
Scappo sul divano con i due cuginetti e la quindicenne sempre attaccata al cellulare. A chi manda gli sms, cosa scrive? Spedisce un ultimo messaggino al suo ragazzo, tvttb io&te 4 mt sottoterra?
Adele ammazza tutti come mosche. Si lanciano per fermarla e lei sembra uno spadaccino: ferisce, colpisce, affonda la lama, è contro un angolo della stanza ma non è una posizione a suo sfavore, anzi, nessuno può prenderla alle spalle.
Lo zio che rubò le cornici d’argento chieste inutilmente? Abbattuto.
La prozia che volle in prestito una pelliccia e non la restituì? Eliminata.
I miei bisnonni fissano la carneficina dalle foto sulla credenza: vivevano con Adele dopo che la figlia, Vittoria, la mia prozia, morì di un brutto male seguita dopo pochi mesi dal marito. Quando anche i bisnonni morirono, rimase tutto ad Adele. I soldi erano scomparsi da tempo.
La cugina Flavia che ha telefonato ai carabinieri e poi ti si è avventata addosso? Uccisa.
Il marito di Zia Mariarosa, che ha chiamato la polizia e poi ha voluto fare l’eroe? Ammazzato.
Adele fissa me seduto sul divano che abbraccio i tre ragazzini. Dalla nebbia dello spinello natalizio mi rendo conto di essere orfano. Provo a salvarci, le parlo con calma.
-Dammi il coltello adesso, dài.
Subito me lo offre dalla parte del manico, educatamente. Sento le sirene, in strada, si avvicinano. Mi rendo conto che io e i tre cugini erediteremo tutto. Adele ha il coltello puntato contro il proprio ventre, porgendomelo dal manico: con una spinta del piede destro, veloce e pesante, glielo affondo in pancia.

Guardo mia cugina.
-Hai mica visto dove ho lasciato le chiavi di casa?
-Sì, in cucina sopra il frigo, ti ho visto metterle lì.
-Vai a prenderle e mettile nella porta. E anche le altre, mettile a posto. Come ti chiami che non mi ricordo mai? E loro due?
-Daniela. Loro sono Giuseppe e Paolo.
Vado in bagno: Daniela, sì, ora mi ricordo, mia madre la chiamava sempre Danielina, ha infilato nelle toppe tutte le chiavi. Vedo la maniglia della porta del bagno abbassarsi piano, non arrivare in fondo, risalire. Poi di nuovo giù, decisa, scatta, la porta si apre, Danielina è nello specchio con me, le mani sulle spalle di Giuseppe e Paolo, stravolti, bianchi e muti. Lei invece è tranquilla, come se avesse visto un film alla tv. Mi sta chiedendo qualcosa, gli ultimi fumi dello spinello spariscono del tutto.
-Domani o appena riusciamo andiamo a trovare anche la vecchia dell’ospizio? Sai, la zia dei nonni?
Rido.